Le pareti
bianche di quella stanza rettangolare riflettevano le ombre di una ventina di
persone accoppiate dal Direttore; esse erano in attesa di assistere ad un
evento, io non sapevo quale, talmente importante da aver fatto radunare altre
cento anime nell’atrio al piano terra, dal quale io ero appena uscito.
Costeggiavo con insicurezza e smarrimento un lungo tavolo in legno, vuoto, alla
ricerca di qualcuno con cui parlare. Il Direttore non aveva ancora stabilito
chi sarebbe stato il mio compagno o la mia compagna; non c’erano sedie in
quella stanza, c’erano solo due porte una per salire e una per scendere;
c’erano dei cartelloni colorati con animali disegnati da bambini e, più in alto,
erano state appese delle maschere luccicanti con volti umani sorridenti e
urlanti; oltre le finestre vedevo solo il nero e qualche chiazza bagnata
illuminata dalla gialla luce.
Le persone in
quella stanza erano vestite in modo elegante: gli uomini erano in nero, in
grigio o in marrone; le donne erano in rosa, in giallo, in rosso o in viola. Io
parevo uno straccione se paragonato a loro: la mia felpa scura vecchia di sei
anni e sporca era accompagnata da dei pantaloni di velluto marroni e scarponi
bruni. Alcuni mi guardavano, lo capivo anche senza la verifica dei miei occhi,
quando mi giravo loro si giravano e provavano a nascondere i loro ghigni
maligni.
Non sono un
linguista quindi non potevo riconoscere le lingue che parlavano i diversi
ospiti, forse alcuni erano inglesi, i francesi e i tedeschi erano i più
semplici da identificare per me, altri parlavano in cinese, forse, o in
coreano; come ho già detto non sono un esperto in queste cose, ma ero certo che
nessuno di loro venisse dallo stesso paese eppure tutti si capivano
perfettamente (cosa molto strana). Un francese parlava ad un tedesco ed il
tedesco rispondeva. Dalle espressioni facciali e dalla fluidità dei loro
dialoghi era facile dedurre che si stavano capendo eppure parlavano nella loro
madrelingua e senza l’uso di traduttori. Non riuscivo a capire. Soprattutto non
comprendevo perché io fossi l’unico incapace di intendere le lingue altrui,
forse in mezzo a quella marmaglia altolocata io ero l’unico cervello d’asino.
Il Direttore
fece il mio nome:
“Giorgio Sani.”
“Sono qui” dissi
io con una voce debole e alzando una mano come se fossi uno studente
interpellato da un professore; gli altri ridacchiarono a bassa voce vedendo la
mia reazione.
“Giorgio Sani,
quindi?” domandò il Direttore rivolgendosi a me.
“Sì, sono io.”
“Marie Ossler.”
Qualcuno si
avvicinò. Io non mi girai per paura di vedere con chi mi avesse accoppiato il
Direttore.
“Voi due siete
gli ultimi. Fra trenta minuti lo vedrete” disse il Direttore avviandosi verso
le scale che salivano.
Finalmente mi
girai e venni colpito dal fascino di quella giovane fanciulla che dall’aspetto
pareva una mia coetanea. Era alta come me, era magra ma non eccessivamente,
aveva un nasino un po’ schiacciato e le sue labbra erano sottili; i suoi occhi
erano celesti ed i capelli erano lunghi, biondi e mossi. Ciò che però attirò di
più la mia attenzione non fu tanto la sua innegabile bellezza quanto il fatto
che non nascondesse le sue imperfezioni; aveva due rossi brufoli nella sua
guancia sinistra e ne aveva un altro oltre il sopracciglio destro; si poteva
persino notare un lieve eczema nella parte sinistra del collo. Marie Ossler
indossava un abito lungo, azzurro, non era decorato, e non era adornata con
gioielli; ai piedi portava, curiosamente, non dei tacchi ma delle scarpe,
somigliavano a degli scarponi più o meno, ed erano di un marrone scuro, molto
scuro.
Dal suo nome
avevo intuito che non era italiana e mi ero preparato al peggio, ovvero una
catena di pessime figure su pessime figure che si sarebbero succedute fino alla
fine della serata. Presi aria con la bocca, cercai di non dare l’impressione di
essere agitato ma da come mi stava guardando capii che probabilmente avevo
fallito. Mi voltai e mi diressi verso il tavolo lungo, lei mi seguì senza dire
una parola e si fermò prima di me, quindi mi girai verso di lei e aspettai. Non
avevo intenzione di essere il primo a parlare, un misto di timidezza e paura mi
incatenavano la lingua e così rimasi zitto almeno per tre minuti, guardandomi
attorno e fingendo, con le mie scarse capacità recitative, di non avere dei
problemi a non rivolgerle la parola.
“Scusa” disse
lei, poi si schiarì la voce “non sono brava in queste cose.”
Aveva una
bellissima voce, pensai, e solo dopo realizzai che ero riuscito a capirla.
“Sei italiana?”
domandai io.
“No, sono
svedese.”
“Ma parli
italiano?”
“No, parlo
svedese, come te.”
Quella risposta
mi lasciò attonito. Mi girai per ascoltare meglio le conversazioni altrui, non
ci capivo un’acca, però potevo comprendere Marie. Ma io sapevo di non essere un
linguista. Le cose allora erano due: o lo Spirito Santo mi aveva insegnato lo
svedese mentre io dormivo oppure la bella Marie mi stava prendendo per i
fondelli.
“Sì, ecco …”
Non sapevo cosa
dirle, seriamente, quella situazione era davvero assurda ma me ne uscii con una
domanda (che a ripensarci adesso fu molto intelligente):
“Tu capisci
quello che dicono gli altri?”
“Gli altri?” Si
guardò attorno per un attimo. Tornò da me e mi rispose: “Mm, no. Ma perché gli
altri parlano lingue che io non conosco. Nessuno di loro è svedese. Credo di
essere l’unica in questa stanza insieme a te.”
“Be’ io sono
italiano, non svedese. Quando tu parli io ti sento parlare nella mia lingua.”
“Ma …” Non disse
niente. Mosse gli occhi e li strinse, poi mi guardò e mi disse: “No, non ha
senso. Io ti sento parlare in svedese … tu parli svedese. Lo sento. Lo capisco.
È quello.”
“No, io non
parlo svedese.”
“Ma capisci gli
altri?” domandò lei, perplessa.
“Non conosco la
lingua di nessuno, qui dentro. Mi sento l’unico italiano. Anzi, sono convinto
di essere l’UNICO italiano. Come credo che tu sia l’UNICA svedese e quel tipo
con la barba strana l’UNICO tedesco.”
“Ah-” trattenne
la risata. “Scusa.”
“E per cosa?”
Il suo volto era diventato rosso, i brufoli erano quasi diventati invisibili.
“Non volevo
essere sgarbata.”
“Stavi ridendo. Cosa c'è di sbagliato?” domandai io, confuso.
“Mia madre mi
dice spesso che soltanto i pagliacci ridono quando è inopportuno.”
“Tua madre deve
essere una personcina davvero deliziosa” commentai io con sarcasmo.
“Sì, lo so. È
imbarazzante anche per me, ma non possiamo sceglierci la famiglia, giusto?”
“No, hai
ragione, ma non dovresti sentirti in imbarazzo per lei.”
“Tu ci
riusciresti?” chiese lei inarcando le sopracciglia.
“Non
fraintendermi” dissi io “ma è più facile quando la persona di cui parli non c’è
più. Nel mio caso specifico mia madre è morta un anno fa, non posso provare
imbarazzo per quello che lei era perché ora non lo è più.”
“Freddo.” Il suo
commento venne accompagnato da uno sguardo leggermente inquietato.
“Io e mia madre
non eravamo in buoni rapporti.”
“Lo avevo
capito.” Piegò lievemente la testa di lato. “Cosa ti faceva?”
“Mi criticava.
Troppo. Ogni cosa che facevo era soggetta a critiche, su critiche, su critiche
… non finiva più. Era una donna meschina, narcisista e priva di personalità. Si
aggrappava costantemente al successo di sconosciuti solo per farmi sentire
piccolo, dopotutto non poteva usarmi come fallo sociale. Per lei ero un
fallimento costante.”
“E tuo padre?”
“Lasciò la
famiglia non appena trovò l’occasione. Avevo solo cinque anni quando lui mi
abbandonò. Non so che fine abbia fatto e non mi interessa.”
“Mi dispiace.”
“E tu? Che mi
dici tuo padre?”
“Ehm … è
difficile da dire …”
Marie aveva un
modo di fare davvero grazioso, quando parlava si stringeva il fronte della
gonna dell’abito con entrambe le mani e oscillava lievemente a destra e a
sinistra; si capiva che era una persona che amava ascoltare, i suoi occhi erano
sempre attenti ma il dettaglio più particolare era che prima di parlare tendeva
a tirare fuori a rimettere dentro la lingua
per leccarsi velocemente il labbro superiore, proprio come un gatto. Non
le domandai perché lo facesse, non volevo metterla a disagio in nessun modo.
“Mio padre non è
esattamente come mia madre, è più buono di lei anche se non perfetto. Potrei
definirlo una specie di … artista fallito. Ora lavora come bidello in una
scuola ma in passato, prima che io nascessi, era un poeta le cui poesie erano
abbastanza famose da fargli guadagnare una fortuna che sfortunatamente finì nel
tritarifiuti, o almeno in parte.”
“Cosa gli è
successo?”
“Non … non lo so
con certezza. So soltanto che un giorno le sue poesie hanno smesso di vendere e
lui ha iniziato a sperperare il suo patrimonio. Mi dispiace … non conosco i
dettagli.”
“Ma in che senso
lui è più buono di tua madre?” domandai curiosamente.
“Be’ tanto per
cominciare non è pignolo come lei, è più permissivo, meno petulante di mia
madre, più gentile di lei però … tende ad ubriacarsi e ci sono state delle
notti nelle quali non è tornato a casa. Io lo so il motivo. Lo intuisco. Non
sono scema.” Il suo sguardo si era fatto più cupo.
“Di cosa parli?”
“Lui ha delle
amanti” disse sospirando.
“Ne sei sicura?”
“Abbastanza. Mio
padre è un bell’uomo, forse un po’ sciupato, ma comunque abbastanza
affascinante da attrarre le giovani ragazze in cerca di avventure di una notte.
So che può sembrare assurdo ma qualche volta lo vedevo parlare con delle
sconosciute, queste erano palesemente un po’ troppo ‘appiccicose’, non se
capisci cosa intendo, ed erano più giovani di mia madre … almeno di dieci
anni.”
“Tu come ti
senti?”
“Così.” Alzò le
braccia e le fece cascare sui fianchi. “Non so se essere felice o se avere
paura di essere abbandonata. Una parte di me lo capisce, ma l’altra crede
ancora in quella famiglia felice ritratta nelle fotografie.”
La prima cosa
che pensai fu ‘povera Marie Ossler’ e la seconda cosa che pensai fu invece
‘sono stato un idiota a voler parlare di suo padre’. Non volevo sciupare
l’umore della ragazza, non erano quelle le mie intenzioni all’inizio, e invece
era quello che avevo ottenuto (soltanto geni come me possono rovinare una
gradevole conversazione). Nel tentativo di rimediare ai miei errori le
domandai:
“Cosa ti piace?”
“Eh? In che
senso?”
“Non lo so …
quale libro ti piace?”
“Non sono una
grande lettrice, ho letto qualcosa della Christie e di Stout, ma niente di particolarmente
profondo o impegnativo.”
“Quindi ti
piacciono i gialli?”
“Sì, ma non sono
un’appassionata del genere, li trovo semplicemente più interessanti di altri.
Tu invece?”
“Il mio autore
preferito è Edgar Allan Poe. Lo adoro.”
“Lo conosco.”
“Sì?”
“Mia sorella,
lei è la lettrice di casa per la cronaca, adora i racconti del mistero e anche
dell’orrore. È un po’ strana però …”
“Perché?”
“Ama leggerli
nella vasca da bagno.”
“Oh.”
Accidenti a me
non riuscii ad impedire al mio cervello di vagare nella fantasia e di costruire
l’immagine di una donna svedese, immersa nell’acqua e nelle bolle di sapone che
legge un racconto di Edgar Allan Poe sorseggiando dello champagne.
“Ci stai
pensando, vero?” domandò lei con un ghigno malizioso.
“Chi? Io? No, no
…”
“Invece sì e si
capisce. Hai le guance un po’ più rosse di prima.”
“Tecnicamente è
colpa tua, se tu non avessi parlato di tua sorella nuda che legge un libro io
non ci avrei pensato.” Smisi di parlare il tempo necessario per assicurarmi che
non fosse ancora tornato il Direttore, non volevo interrompere quella piacevole
conversazione con Marie. Ripresi a parlare: “E poi non è strano che una persona
legga nella vasca da bagno. Ognuno legge dove vuole.”
“E se il libro
cadesse nell’acqua?”
“Se tua sorella
non ha le mani di burro è tutto a posto.”
“E se gli
schizzi d’acqua bagnassero le pagine?”
“Quando si legge
bisognerebbe stare fermi.”
“Ma nessuno sta
fermo in una vasca da bagno.”
“Ma si può
maneggiare il libro con attenzione.”
“Ma così non è
divertente fare il bagno. Io, per esempio, amo giocare con l’acqua e- ” Si mise
a posto i capelli con un modo di fare impacciato. “Dimentica. Dimentica che ti
abbia detto come faccio il bagno” disse arrossendo come un peperone.
“Sarà difficile”
le dissi io sorridendo.
Lei si avvicinò
a me e diede un pizzicotto sul braccio.
“Ahia.”
“Così impari a
fantasticare su di me.”
“Non ho detto
che l’ho fatto.”
“Ma non hai
neanche detto che non l’avresti fatto.”
“Touché.”
“Allora lo parli
il tedesco!”
“Ma no, è
francese!”
“Be’ almeno tu
puoi parlare con qualcun altro qui …”
“E che gli
dico?” Finsi un accento francese. “ ‘Touché, io sono Giorgiò. Touché a te e
touché anche alla tua famiglià.’”
Entrambi ci
mettemmo a ridere. Ero felice di essere riuscito a farle dimenticare quella
brutta conversazione riguardo al padre; il sorriso di Marie Ossler era
splendente come una stella, quando rideva arrossiva e con la mano si era
aggrappata alla manica della mia felpa.
Non essendoci
sedie io e Marie ci accomodammo sul tavolo, lei appoggiò la testa sulla mia
spalla e mi prese una mano; la cosa non mi mise a disagio ma fece impazzire il
mio cuore, improvvisamente il mio corpo venne percorso da un brivido gelido che
si riscaldò in un attimo. Il modo migliore per descrivere quella sensazione è
il fuoco del camino, sì, mi sentivo come quando mi riscaldavo davanti al fuoco
del camino: ero accaldato ma non sudavo, ero illuminato da una luce e mi
sentivo abbracciato e protetto.
La mano di Marie
era inumidita e potevo sentire perfettamente il suo respiro agitato e quasi
potevo immaginare il sangue nelle sue vene che scorreva con estrema velocità,
infuocando un cuore che palpitava allo stesso ritmo del mio. Non stava male,
nessuno l’aveva costretta a fare quello che stava facendo eppure la sua
reazione tanto era preoccupante quanto rassicurante. Era la prima volta anche
per lei. Non voleva manipolarmi, non voleva sedurmi, voleva mostrare il suo
affetto.
“Tu credi in Dio?”
chiese lei.
“Non lo so,
perché?”
“Perché questo
strano posto è così magico, ed è impossibile nel mondo reale, giusto? Come
potresti spiegarlo scientificamente? Deve essere qualcosa di divino.”
“O di demoniaco.”
“Nel nostro
incontro non c’è nulla di demoniaco, io credo che sia stata la Provvidenza.
Pensaci, non possiamo capire nessuno in questa stanza, solo io e te possiamo
capirci. Pur essendo di due nazioni diverse, pur parlando due lingue diverse,
io capisco solo te e tu capisci solo me. Qui c’è la mano di Dio.”
“Perché sono
qui?”
Quella domanda uscì dalla mia bocca da sola. Non l'avevo comandata io, non l'avevo neanche pensata.
“Come?” domandò lei.
“Non ricordo
perché sono qui. Non ricordo come sono arrivato qui. Questo è strano.”
“Io non ci
penso.”
“Mm …”
Mi guardai
attorno e la mia attenzione cadde nuovamente sugli abbigliamenti degli altri
invitati: erano persone dall’aspetto ricco, erano persone fisicamente belle,
addobbate con gioielli di ogni tipo e soprattutto erano l’opposto di noi due.
Perché eravamo lì? Perché IO ero lì? Non mi sarei mai azzardato ad entrare in
una festa piena di ricconi e se davvero mi fossi presentato di mia volontà,
perché mai mi avrebbero accolto? Ero vestito come uno straccione. Ero un
poveraccio. Quello non era il mio posto. Ne ero sempre più sicuro. Poi il mio
pensiero errante si fermò. Cosa aveva detto Marie? ‘Io capisco solo te e tu
capisci solo me’. No. Era sbagliato. Era completamente sbagliato. C’era qualcun
altro nell’equazione.
“Il Direttore”
mormorai io.
“Il …
Direttore?”
“Tu lo capivi?”
“Sì.”
“Anche io. Anche
io capivo lui. In ogni coppia lui è il terzo elemento, noi non capiamo le altre
coppie ma tutte le coppie capiscono lui. Perché? Chi è il Direttore?”
Lei staccò la
testa dalla mia spalla e mi guardò con due occhi preoccupati.
“Cosa stai
dicendo? Mi fai paura.”
“Forse c’è
davvero qualcosa di magico in questo posto ma è anche qualcosa di terribile,
non so perché ma ne sono sicuro. C’è qualcosa che mi sta dando i brividi. Lo
sento correre lungo la mia spina dorsale, è nelle mie ossa, sotto la mia pelle
… è una sensazione stranissima. Dove siamo davvero?”
In quel momento
scese il Direttore che sbattendo le mani attirò l’attenzione di tutti i
presenti e con una voce entusiasta affermò:
“Signore e
signori, è il momento dello spettacolo! Prego, seguitemi.”
Il Direttore
salì le scale e noi con lui. Intorno a me sentivo solo bisbigli e risatine, ma
non c’era niente di particolarmente strano, niente di particolarmente
terrificante. Il Direttore aprì una porta, si voltò e con un sorriso smagliante
ci disse:
“Lo spettacolo.”
Entrai per primo
e la prima cosa che notai fu la mancanza di sedie. Marie Ossler era al mio
fianco, mi toccò la spalla due volte e con il dito indicò il muro distante
circa venti metri da noi due sul quale erano dipinte una foresta, delle persone
senza faccia che ballavano e una strana creatura tentacolare, nera, con tanti
occhi e un sorriso inquietante.
Quello sciame di
persone assunse la forma di un semicerchio; per circa cinque minuti non accadde
niente ma poi le luci si spensero improvvisamente e dal buio emerse un raggio
bianco che illuminava una gabbia d’acciaio chiusa con un lucchetto; all’interno
della piccola prigione c’era una persona accucciata, vestita con un nero
ricoperto di brillantini rossi, bianchi e blu; aveva un buffo cappello ed una
maschera che ricordava quelle usate nei teatri della Grecia Antica, con una
sola differenza: non c’era un volto.
Il Direttore
aprì la gabbia da sopra. Quella specie di giullare si alzò aprendo le braccia
come un bambino appena uscito dal grembo della madre e la prima cosa che disse fu:
“Son nato dalla
morte di ieri.”
Il pubblico si
mise a ridere. Non capii la battuta.
“Ieri sussurra a
oggi e ci dice che domani non sarà che cenere se la terra non vien concimata
con la giusta cura. Chi troppo in alto vola si scorda di chi succhia la linfa
della terra, la creatura vermiforme che l’aquila invidia in cuor suo.”
Il pubblico rise
nuovamente. Forse era una barzelletta che non avevo compreso, continuai ad
ascoltare attentamente.
“Alza l’orecchio
tu che sai ascoltare perché la voce che senti è un sussurro che viene dalle
ceneri, non dal fuoco, ma da ciò che non brucia più. La fiamma che si consuma,
già, essa racconta con urla talmente silenziose da poter essere udite solo da
chi tende l’orecchio, non verso il cielo; il tetto è la terra.” Saltò fuori
dalla gabbia con un balzo e sbattendo i piedi sul pavimento con forza e
indicando verso il basso, esclamò: “Questa terra!”
Il pubblico
stava ridendo. Mi girai e mi accorsi che Marie Ossler era attonita come me, entrambi non sapevamo come spiegarci la reazione di quel pubblico.
Perché le persone ridevano quando quella specie di arlecchino parlava? Cosa
c’era di divertente in quello che diceva?
“Questa terra!”
Egli indicò nuovamente il terreno e sulla sua maschera comparve una faccia
triste.
Il pubblico
applaudì.
“Li sentite?
Sussurrano, bisbigliano e URLANO! I vermi succhiano le intricate fibre delle
vostre menzogne e giungono a Verità che non giace nel cielo ma è stata, bensì,
sepolta. Chi ha ucciso Verità? Chi è colpevole di tale crimine?” Sulla maschera
comparve una faccia furiosa. “Chi ha assassinato Verità? Io? No, giammai! Non
avrei mai potuto, sono un povero pazzo ma assassino senza cuore non sarò mai!
Prepara la terra, fa risorgere Verità; prepara la terra, fa risorgere Verità;
prepara la terra, fa risorgere Verità.” Stava fingendo di mettere dei semi nel
terreno. “Ma chi ha ucciso?” Sulla maschera comparve una faccia triste. “Voi.”
Alle sue spalle,
sul muro, apparvero le immagini di guerre, di persone che morivano di fame, di
genocidi, di orrendi stupri e di disumane torture.
“Voi” ripeté.
Sul muro
apparvero volti sorridenti, famiglie in vacanza, bambini che giocavano, uomini
in alti palazzi, feste e proteste.
“Voi” ripeté e
poi indicò la gabbia.
Il pubblico
continuava a ridere ma io e Marie eravamo consci che non si trattava di un
spettacolo comico.
“Voi appartenete
a quella gabbia, io no, voi sì, io no, voi sì. Io no. Voi sì. Davvero è gioia
se viene costruita sulle spalle di chi mangia il fango? Alzate lo sguardo e
osservate. L’aquila non vola davvero, crede di volare, ma è appesa ad un filo
su un cielo che si muove. Ma come può volare? Cosa da energia alla macchina?”
La maschera ottenne l’espressione di un volto piangente con lacrime rosse.
“Sangue. Sangue di Verità. Religione? No. Scienza? No. Il suo nome è Umanità.
Io sono te, tu sei me, il tuo sangue, la tua carne, la tua pelle, sono il mio
sangue, la mia carne e la mia pelle. Io sono te, tu sei me. Siamo Umanità. Uno
in tanti, tanti in uno. Questo è il vero nome di Verità.”
Il pubblico si
mise a ridere e ad applaudire.
“Se io taglio
me, tu soffri. È simpatia. Umana empatia. La vera sintonia. Ma seppellire
Verità-Umanità è tapparsi le orecchie, divorare il suono e rimpiazzare
l’esistente con l’inesistente. Ora tendi l’orecchio verso di me. Tu mi senti,
vero? Tu mi capisci, vero? Tu sei l’unico che capisce me, vero?” Sulla maschera
comparve un sorriso. “Balla e gioisci, fermati e disperati, perché casa mia è
casa tua.” Rise, pianse, rise di nuovo e di nuovo pianse. “Piegati, umiliati,
che la tua fronte tocchi il grembo della terra, gira la testa, tutto gira, e
strappati la faccia. Tu non sei più te stesso ora sei solo te. L’ombra,
l’impronta su una distesa di sabbia, il pezzo mancante in questo castello di
specchi. Spaccati la testa finché puoi, mantieni tua la testa o essa subirà l’infausto
destino e sarà chiamata circo.”
Quella specie di giullare fece un inchino e il pubblicò applaudì un'ultima volta prima di abbandonare la stanza. Solo io e Marie rimanemmo, ancora scioccati da quello spettacolo surreale.
Entrò il Direttore.
“Dio non esiste.”
Le sue parole vennero seguite da un applauso da parte di quell’arlecchino.
“Che cos’è
questo posto davvero?” domandai io, ancora scosso e confuso.
“Il Purgatorio,
probabilmente, ma sicuramente una tua qualsiasi interpretazione condotta dalla
fantasia andrà benissimo. Non sono le definizioni ad avere rilevanza ma è ciò
che siete voi. Un caso, una particolare anomalia. Qualcosa che è necessario correggere.
Voi avete l’Udito. Potete sentire.”
“Cosa significa?”
domandò Marie, spaventata.
“La mia voce è
Autorità e tutti possono e devono udirla. Ma gli esseri umani, fra di loro, non
si capiscono e mai si capiranno. Le persone non sentono niente, rispondono
sempre a ciò che credono di sentire. Sostituiscono la realtà con la bella
fantasia. Tuttavia c’è chi, come voi due, possiede l’Udito e può sentire la sua
voce.” Indicò quel giullare. “La sua voce è Verità o, come la chiama lui,
Umanità. Nessuno può udirlo eccetto voi due, per questa ragione la correzione è
necessaria. Bisogna esportare il tumore, risolvere il problema altrimenti
scoppierà una rivoluzione.”
Marie mi prese
la mano e mi condusse di corsa verso l’uscita ma la porta era sigillata.
“Non si scappa
dalla cura.”
“Ma tu chi sei?”
Egli non rispose
alla mia domanda, finse un sorriso e schioccò le dita, quindi scese il buio.
Quando riaprii
gli occhi mi ritrovai in una cella assieme a Marie Ossler, le sbarre erano di
ferro e l’intera struttura era di cemento. Nella stanza c’erano un grande letto
con un materasso colmo di lacerazioni, un gabinetto, un lavandino con uno
specchio rotto, un tavolo ed una sedia. Oltre le sbarre c’era solo il
silenzioso nero. Alzai lo sguardo e notai che sul soffitto della cella erano
stati incisi due immensi occhi spalancati ed una scritta ‘Nosocomio dell’Alba’.
Non so quanto
tempo restammo in quella prigione … posso solo dire: abbastanza da farci l’abitudine.
La mia relazione con Marie Ossler proseguì all’interno di quel piccolo mondo di
cemento. Venivamo nutriti solo una volta al giorno con una bottiglietta d’acqua,
pane e una mela; il cibo veniva lasciato davanti alla gabbia e quando cercavamo
di scoprire chi ce lo stesse portando non arrivava; così ci rassegnammo.
La convivenza
con Marie fu inizialmente complicata per me, ma alla fine noi due ci
avvicinammo e consumammo il nostro primo rapporto carnale. Al quarto lei rimase
incinta; disperata, perché non voleva avere un figlio in quella gabbia, decise
di togliersi la vita tagliandosi la gola con un frammento di specchio. Piansi come mai avevo pianto in vita mia. Il giorno seguente passò il Direttore, comparso dal buio, lasciò cadere oltre le sbarre dei fogli di carta insieme ad una penna.
“Cosa vuoi da
me? Hai già avuto abbastanza. Mi hai già tolto ogni libertà, ogni briciolo di
dignità, mi hai persino strappato l’amore della mia vita. Che cosa vuoi da me?
Che cos’altro vuoi da me?”
“Niente. Non ho
mai voluto niente da te.”
“Allora cos’è
quella roba?”
“Sei stanco.
Debole. Incapace di reagire. Sei il più fragile fra gli esseri umani, ma forse
puoi dare un contributo a questo mondo … puoi scrivere le tue memorie, puoi
scrivere tutto quello che vuoi. Saprò io cosa farne di quei fogli.”
“Ma perché
adesso?”
“Perché ora sei
fertile. Condannami se vuoi, ma è giusto così. Ciò che tu hai subito è stato giusto. Questa è la mia Legge.”
Scomparve. Quella
fu l’ultima volta che lo vidi.
Ho scritto questa
storia per i posteri, al fianco del corpo della donna che amavo. Forse un
giorno qualcuno di voi scoprirà che cosa è successo e chi è il Direttore. Forse qualcuno di voi svelerà il mistero di questo mondo così depravato.
Ciao, Marie
Ossler, mia amata, oggi ti raggiungerò.
Nota dell'autore
Questo racconto è ispirato ad un sogno che ho fatto, ho cercato di trascrivere il sogno nella maniera più accurata possibile e per questo potrebbero esserci delle cose strane e quasi assurde. Ma spero che vi sia piaciuto.😅
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