giovedì 22 ottobre 2020

Marie Ossler e l’Arlecchino di Mezzanotte

Le pareti bianche di quella stanza rettangolare riflettevano le ombre di una ventina di persone accoppiate dal Direttore; esse erano in attesa di assistere ad un evento, io non sapevo quale, talmente importante da aver fatto radunare altre cento anime nell’atrio al piano terra, dal quale io ero appena uscito. Costeggiavo con insicurezza e smarrimento un lungo tavolo in legno, vuoto, alla ricerca di qualcuno con cui parlare. Il Direttore non aveva ancora stabilito chi sarebbe stato il mio compagno o la mia compagna; non c’erano sedie in quella stanza, c’erano solo due porte una per salire e una per scendere; c’erano dei cartelloni colorati con animali disegnati da bambini e, più in alto, erano state appese delle maschere luccicanti con volti umani sorridenti e urlanti; oltre le finestre vedevo solo il nero e qualche chiazza bagnata illuminata dalla gialla luce.
Le persone in quella stanza erano vestite in modo elegante: gli uomini erano in nero, in grigio o in marrone; le donne erano in rosa, in giallo, in rosso o in viola. Io parevo uno straccione se paragonato a loro: la mia felpa scura vecchia di sei anni e sporca era accompagnata da dei pantaloni di velluto marroni e scarponi bruni. Alcuni mi guardavano, lo capivo anche senza la verifica dei miei occhi, quando mi giravo loro si giravano e provavano a nascondere i loro ghigni maligni.
Non sono un linguista quindi non potevo riconoscere le lingue che parlavano i diversi ospiti, forse alcuni erano inglesi, i francesi e i tedeschi erano i più semplici da identificare per me, altri parlavano in cinese, forse, o in coreano; come ho già detto non sono un esperto in queste cose, ma ero certo che nessuno di loro venisse dallo stesso paese eppure tutti si capivano perfettamente (cosa molto strana). Un francese parlava ad un tedesco ed il tedesco rispondeva. Dalle espressioni facciali e dalla fluidità dei loro dialoghi era facile dedurre che si stavano capendo eppure parlavano nella loro madrelingua e senza l’uso di traduttori. Non riuscivo a capire. Soprattutto non comprendevo perché io fossi l’unico incapace di intendere le lingue altrui, forse in mezzo a quella marmaglia altolocata io ero l’unico cervello d’asino.
Il Direttore fece il mio nome:
“Giorgio Sani.”
“Sono qui” dissi io con una voce debole e alzando una mano come se fossi uno studente interpellato da un professore; gli altri ridacchiarono a bassa voce vedendo la mia reazione.
“Giorgio Sani, quindi?” domandò il Direttore rivolgendosi a me.
“Sì, sono io.”
“Marie Ossler.”
Qualcuno si avvicinò. Io non mi girai per paura di vedere con chi mi avesse accoppiato il Direttore.
“Voi due siete gli ultimi. Fra trenta minuti lo vedrete” disse il Direttore avviandosi verso le scale che salivano.
Finalmente mi girai e venni colpito dal fascino di quella giovane fanciulla che dall’aspetto pareva una mia coetanea. Era alta come me, era magra ma non eccessivamente, aveva un nasino un po’ schiacciato e le sue labbra erano sottili; i suoi occhi erano celesti ed i capelli erano lunghi, biondi e mossi. Ciò che però attirò di più la mia attenzione non fu tanto la sua innegabile bellezza quanto il fatto che non nascondesse le sue imperfezioni; aveva due rossi brufoli nella sua guancia sinistra e ne aveva un altro oltre il sopracciglio destro; si poteva persino notare un lieve eczema nella parte sinistra del collo. Marie Ossler indossava un abito lungo, azzurro, non era decorato, e non era adornata con gioielli; ai piedi portava, curiosamente, non dei tacchi ma delle scarpe, somigliavano a degli scarponi più o meno, ed erano di un marrone scuro, molto scuro.
Dal suo nome avevo intuito che non era italiana e mi ero preparato al peggio, ovvero una catena di pessime figure su pessime figure che si sarebbero succedute fino alla fine della serata. Presi aria con la bocca, cercai di non dare l’impressione di essere agitato ma da come mi stava guardando capii che probabilmente avevo fallito. Mi voltai e mi diressi verso il tavolo lungo, lei mi seguì senza dire una parola e si fermò prima di me, quindi mi girai verso di lei e aspettai. Non avevo intenzione di essere il primo a parlare, un misto di timidezza e paura mi incatenavano la lingua e così rimasi zitto almeno per tre minuti, guardandomi attorno e fingendo, con le mie scarse capacità recitative, di non avere dei problemi a non rivolgerle la parola.
“Scusa” disse lei, poi si schiarì la voce “non sono brava in queste cose.”
Aveva una bellissima voce, pensai, e solo dopo realizzai che ero riuscito a capirla.
“Sei italiana?” domandai io.
“No, sono svedese.”
“Ma parli italiano?”
“No, parlo svedese, come te.”
Quella risposta mi lasciò attonito. Mi girai per ascoltare meglio le conversazioni altrui, non ci capivo un’acca, però potevo comprendere Marie. Ma io sapevo di non essere un linguista. Le cose allora erano due: o lo Spirito Santo mi aveva insegnato lo svedese mentre io dormivo oppure la bella Marie mi stava prendendo per i fondelli.
“Sì, ecco …”
Non sapevo cosa dirle, seriamente, quella situazione era davvero assurda ma me ne uscii con una domanda (che a ripensarci adesso fu molto intelligente):
“Tu capisci quello che dicono gli altri?”
“Gli altri?” Si guardò attorno per un attimo. Tornò da me e mi rispose: “Mm, no. Ma perché gli altri parlano lingue che io non conosco. Nessuno di loro è svedese. Credo di essere l’unica in questa stanza insieme a te.”
“Be’ io sono italiano, non svedese. Quando tu parli io ti sento parlare nella mia lingua.”
“Ma …” Non disse niente. Mosse gli occhi e li strinse, poi mi guardò e mi disse: “No, non ha senso. Io ti sento parlare in svedese … tu parli svedese. Lo sento. Lo capisco. È quello.”
“No, io non parlo svedese.”
“Ma capisci gli altri?” domandò lei, perplessa.
“Non conosco la lingua di nessuno, qui dentro. Mi sento l’unico italiano. Anzi, sono convinto di essere l’UNICO italiano. Come credo che tu sia l’UNICA svedese e quel tipo con la barba strana l’UNICO tedesco.”
“Ah-” trattenne la risata. “Scusa.”
“E per cosa?”
Il suo volto era diventato rosso, i brufoli erano quasi diventati invisibili.
“Non volevo essere sgarbata.”
“Stavi ridendo. Cosa c'è di sbagliato?” domandai io, confuso.
“Mia madre mi dice spesso che soltanto i pagliacci ridono quando è inopportuno.”
“Tua madre deve essere una personcina davvero deliziosa” commentai io con sarcasmo.
“Sì, lo so. È imbarazzante anche per me, ma non possiamo sceglierci la famiglia, giusto?”
“No, hai ragione, ma non dovresti sentirti in imbarazzo per lei.”
“Tu ci riusciresti?” chiese lei inarcando le sopracciglia.
“Non fraintendermi” dissi io “ma è più facile quando la persona di cui parli non c’è più. Nel mio caso specifico mia madre è morta un anno fa, non posso provare imbarazzo per quello che lei era perché ora non lo è più.”
“Freddo.” Il suo commento venne accompagnato da uno sguardo leggermente inquietato.
“Io e mia madre non eravamo in buoni rapporti.”
“Lo avevo capito.” Piegò lievemente la testa di lato. “Cosa ti faceva?”
“Mi criticava. Troppo. Ogni cosa che facevo era soggetta a critiche, su critiche, su critiche … non finiva più. Era una donna meschina, narcisista e priva di personalità. Si aggrappava costantemente al successo di sconosciuti solo per farmi sentire piccolo, dopotutto non poteva usarmi come fallo sociale. Per lei ero un fallimento costante.”
“E tuo padre?”
“Lasciò la famiglia non appena trovò l’occasione. Avevo solo cinque anni quando lui mi abbandonò. Non so che fine abbia fatto e non mi interessa.”
“Mi dispiace.”
“E tu? Che mi dici tuo padre?”
“Ehm … è difficile da dire …”
Marie aveva un modo di fare davvero grazioso, quando parlava si stringeva il fronte della gonna dell’abito con entrambe le mani e oscillava lievemente a destra e a sinistra; si capiva che era una persona che amava ascoltare, i suoi occhi erano sempre attenti ma il dettaglio più particolare era che prima di parlare tendeva a tirare fuori a rimettere dentro la lingua  per leccarsi velocemente il labbro superiore, proprio come un gatto. Non le domandai perché lo facesse, non volevo metterla a disagio in nessun modo.
“Mio padre non è esattamente come mia madre, è più buono di lei anche se non perfetto. Potrei definirlo una specie di … artista fallito. Ora lavora come bidello in una scuola ma in passato, prima che io nascessi, era un poeta le cui poesie erano abbastanza famose da fargli guadagnare una fortuna che sfortunatamente finì nel tritarifiuti, o almeno in parte.”
“Cosa gli è successo?”
“Non … non lo so con certezza. So soltanto che un giorno le sue poesie hanno smesso di vendere e lui ha iniziato a sperperare il suo patrimonio. Mi dispiace … non conosco i dettagli.”
“Ma in che senso lui è più buono di tua madre?” domandai curiosamente.
“Be’ tanto per cominciare non è pignolo come lei, è più permissivo, meno petulante di mia madre, più gentile di lei però … tende ad ubriacarsi e ci sono state delle notti nelle quali non è tornato a casa. Io lo so il motivo. Lo intuisco. Non sono scema.” Il suo sguardo si era fatto più cupo.
“Di cosa parli?”
“Lui ha delle amanti” disse sospirando.
“Ne sei sicura?”
“Abbastanza. Mio padre è un bell’uomo, forse un po’ sciupato, ma comunque abbastanza affascinante da attrarre le giovani ragazze in cerca di avventure di una notte. So che può sembrare assurdo ma qualche volta lo vedevo parlare con delle sconosciute, queste erano palesemente un po’ troppo ‘appiccicose’, non se capisci cosa intendo, ed erano più giovani di mia madre … almeno di dieci anni.”
“Tu come ti senti?”
“Così.” Alzò le braccia e le fece cascare sui fianchi. “Non so se essere felice o se avere paura di essere abbandonata. Una parte di me lo capisce, ma l’altra crede ancora in quella famiglia felice ritratta nelle fotografie.”
La prima cosa che pensai fu ‘povera Marie Ossler’ e la seconda cosa che pensai fu invece ‘sono stato un idiota a voler parlare di suo padre’. Non volevo sciupare l’umore della ragazza, non erano quelle le mie intenzioni all’inizio, e invece era quello che avevo ottenuto (soltanto geni come me possono rovinare una gradevole conversazione). Nel tentativo di rimediare ai miei errori le domandai:
“Cosa ti piace?”
“Eh? In che senso?”
“Non lo so … quale libro ti piace?”
“Non sono una grande lettrice, ho letto qualcosa della Christie e di Stout, ma niente di particolarmente profondo o impegnativo.”
“Quindi ti piacciono i gialli?”
“Sì, ma non sono un’appassionata del genere, li trovo semplicemente più interessanti di altri. Tu invece?”
“Il mio autore preferito è Edgar Allan Poe. Lo adoro.”
“Lo conosco.”
“Sì?”
“Mia sorella, lei è la lettrice di casa per la cronaca, adora i racconti del mistero e anche dell’orrore. È un po’ strana però …”
“Perché?”
“Ama leggerli nella vasca da bagno.”
“Oh.”
Accidenti a me non riuscii ad impedire al mio cervello di vagare nella fantasia e di costruire l’immagine di una donna svedese, immersa nell’acqua e nelle bolle di sapone che legge un racconto di Edgar Allan Poe sorseggiando dello champagne.
“Ci stai pensando, vero?” domandò lei con un ghigno malizioso.
“Chi? Io? No, no …”
“Invece sì e si capisce. Hai le guance un po’ più rosse di prima.”
“Tecnicamente è colpa tua, se tu non avessi parlato di tua sorella nuda che legge un libro io non ci avrei pensato.” Smisi di parlare il tempo necessario per assicurarmi che non fosse ancora tornato il Direttore, non volevo interrompere quella piacevole conversazione con Marie. Ripresi a parlare: “E poi non è strano che una persona legga nella vasca da bagno. Ognuno legge dove vuole.”
“E se il libro cadesse nell’acqua?”
“Se tua sorella non ha le mani di burro è tutto a posto.”
“E se gli schizzi d’acqua bagnassero le pagine?”
“Quando si legge bisognerebbe stare fermi.”
“Ma nessuno sta fermo in una vasca da bagno.”
“Ma si può maneggiare il libro con attenzione.”
“Ma così non è divertente fare il bagno. Io, per esempio, amo giocare con l’acqua e- ” Si mise a posto i capelli con un modo di fare impacciato. “Dimentica. Dimentica che ti abbia detto come faccio il bagno” disse arrossendo come un peperone.
“Sarà difficile” le dissi io sorridendo.
Lei si avvicinò a me e diede un pizzicotto sul braccio.
“Ahia.”
“Così impari a fantasticare su di me.”
“Non ho detto che l’ho fatto.”
“Ma non hai neanche detto che non l’avresti fatto.”
Touché.
“Allora lo parli il tedesco!”
“Ma no, è francese!”
“Be’ almeno tu puoi parlare con qualcun altro qui …”
“E che gli dico?” Finsi un accento francese. “ ‘Touché, io sono Giorgiò. Touché a te e touché anche alla tua famiglià.’”
Entrambi ci mettemmo a ridere. Ero felice di essere riuscito a farle dimenticare quella brutta conversazione riguardo al padre; il sorriso di Marie Ossler era splendente come una stella, quando rideva arrossiva e con la mano si era aggrappata alla manica della mia felpa.
Non essendoci sedie io e Marie ci accomodammo sul tavolo, lei appoggiò la testa sulla mia spalla e mi prese una mano; la cosa non mi mise a disagio ma fece impazzire il mio cuore, improvvisamente il mio corpo venne percorso da un brivido gelido che si riscaldò in un attimo. Il modo migliore per descrivere quella sensazione è il fuoco del camino, sì, mi sentivo come quando mi riscaldavo davanti al fuoco del camino: ero accaldato ma non sudavo, ero illuminato da una luce e mi sentivo abbracciato e protetto.
La mano di Marie era inumidita e potevo sentire perfettamente il suo respiro agitato e quasi potevo immaginare il sangue nelle sue vene che scorreva con estrema velocità, infuocando un cuore che palpitava allo stesso ritmo del mio. Non stava male, nessuno l’aveva costretta a fare quello che stava facendo eppure la sua reazione tanto era preoccupante quanto rassicurante. Era la prima volta anche per lei. Non voleva manipolarmi, non voleva sedurmi, voleva mostrare il suo affetto.
“Tu credi in Dio?” chiese lei.
“Non lo so, perché?”
“Perché questo strano posto è così magico, ed è impossibile nel mondo reale, giusto? Come potresti spiegarlo scientificamente? Deve essere qualcosa di divino.”
“O di demoniaco.”
“Nel nostro incontro non c’è nulla di demoniaco, io credo che sia stata la Provvidenza. Pensaci, non possiamo capire nessuno in questa stanza, solo io e te possiamo capirci. Pur essendo di due nazioni diverse, pur parlando due lingue diverse, io capisco solo te e tu capisci solo me. Qui c’è la mano di Dio.”
“Perché sono qui?”
Quella domanda uscì dalla mia bocca da sola. Non l'avevo comandata io, non l'avevo neanche pensata.
“Come?” domandò lei.
“Non ricordo perché sono qui. Non ricordo come sono arrivato qui. Questo è strano.”
“Io non ci penso.”
“Mm …”
Mi guardai attorno e la mia attenzione cadde nuovamente sugli abbigliamenti degli altri invitati: erano persone dall’aspetto ricco, erano persone fisicamente belle, addobbate con gioielli di ogni tipo e soprattutto erano l’opposto di noi due. Perché eravamo lì? Perché IO ero lì? Non mi sarei mai azzardato ad entrare in una festa piena di ricconi e se davvero mi fossi presentato di mia volontà, perché mai mi avrebbero accolto? Ero vestito come uno straccione. Ero un poveraccio. Quello non era il mio posto. Ne ero sempre più sicuro. Poi il mio pensiero errante si fermò. Cosa aveva detto Marie? ‘Io capisco solo te e tu capisci solo me’. No. Era sbagliato. Era completamente sbagliato. C’era qualcun altro nell’equazione.
“Il Direttore” mormorai io.
“Il … Direttore?”
“Tu lo capivi?”
“Sì.”
“Anche io. Anche io capivo lui. In ogni coppia lui è il terzo elemento, noi non capiamo le altre coppie ma tutte le coppie capiscono lui. Perché? Chi è il Direttore?”
Lei staccò la testa dalla mia spalla e mi guardò con due occhi preoccupati.
“Cosa stai dicendo? Mi fai paura.”
“Forse c’è davvero qualcosa di magico in questo posto ma è anche qualcosa di terribile, non so perché ma ne sono sicuro. C’è qualcosa che mi sta dando i brividi. Lo sento correre lungo la mia spina dorsale, è nelle mie ossa, sotto la mia pelle … è una sensazione stranissima. Dove siamo davvero?”
 
In quel momento scese il Direttore che sbattendo le mani attirò l’attenzione di tutti i presenti e con una voce entusiasta affermò: 
“Signore e signori, è il momento dello spettacolo! Prego, seguitemi.”
Il Direttore salì le scale e noi con lui. Intorno a me sentivo solo bisbigli e risatine, ma non c’era niente di particolarmente strano, niente di particolarmente terrificante. Il Direttore aprì una porta, si voltò e con un sorriso smagliante ci disse:
“Lo spettacolo.”
Entrai per primo e la prima cosa che notai fu la mancanza di sedie. Marie Ossler era al mio fianco, mi toccò la spalla due volte e con il dito indicò il muro distante circa venti metri da noi due sul quale erano dipinte una foresta, delle persone senza faccia che ballavano e una strana creatura tentacolare, nera, con tanti occhi e un sorriso inquietante.
Quello sciame di persone assunse la forma di un semicerchio; per circa cinque minuti non accadde niente ma poi le luci si spensero improvvisamente e dal buio emerse un raggio bianco che illuminava una gabbia d’acciaio chiusa con un lucchetto; all’interno della piccola prigione c’era una persona accucciata, vestita con un nero ricoperto di brillantini rossi, bianchi e blu; aveva un buffo cappello ed una maschera che ricordava quelle usate nei teatri della Grecia Antica, con una sola differenza: non c’era un volto.
Il Direttore aprì la gabbia da sopra. Quella specie di giullare si alzò aprendo le braccia come un bambino appena uscito dal grembo della madre e la prima cosa che disse fu:
“Son nato dalla morte di ieri.”
Il pubblico si mise a ridere. Non capii la battuta.
“Ieri sussurra a oggi e ci dice che domani non sarà che cenere se la terra non vien concimata con la giusta cura. Chi troppo in alto vola si scorda di chi succhia la linfa della terra, la creatura vermiforme che l’aquila invidia in cuor suo.”
Il pubblico rise nuovamente. Forse era una barzelletta che non avevo compreso, continuai ad ascoltare attentamente.
“Alza l’orecchio tu che sai ascoltare perché la voce che senti è un sussurro che viene dalle ceneri, non dal fuoco, ma da ciò che non brucia più. La fiamma che si consuma, già, essa racconta con urla talmente silenziose da poter essere udite solo da chi tende l’orecchio, non verso il cielo; il tetto è la terra.” Saltò fuori dalla gabbia con un balzo e sbattendo i piedi sul pavimento con forza e indicando verso il basso, esclamò: “Questa terra!”
Il pubblico stava ridendo. Mi girai e mi accorsi che Marie Ossler era attonita come me, entrambi non sapevamo come spiegarci la reazione di quel pubblico. Perché le persone ridevano quando quella specie di arlecchino parlava? Cosa c’era di divertente in quello che diceva?
“Questa terra!” Egli indicò nuovamente il terreno e sulla sua maschera comparve una faccia triste.
Il pubblico applaudì.
“Li sentite? Sussurrano, bisbigliano e URLANO! I vermi succhiano le intricate fibre delle vostre menzogne e giungono a Verità che non giace nel cielo ma è stata, bensì, sepolta. Chi ha ucciso Verità? Chi è colpevole di tale crimine?” Sulla maschera comparve una faccia furiosa. “Chi ha assassinato Verità? Io? No, giammai! Non avrei mai potuto, sono un povero pazzo ma assassino senza cuore non sarò mai! Prepara la terra, fa risorgere Verità; prepara la terra, fa risorgere Verità; prepara la terra, fa risorgere Verità.” Stava fingendo di mettere dei semi nel terreno. “Ma chi ha ucciso?” Sulla maschera comparve una faccia triste. “Voi.”
Alle sue spalle, sul muro, apparvero le immagini di guerre, di persone che morivano di fame, di genocidi, di orrendi stupri e di disumane torture.
“Voi” ripeté.
Sul muro apparvero volti sorridenti, famiglie in vacanza, bambini che giocavano, uomini in alti palazzi, feste e proteste.
“Voi” ripeté e poi indicò la gabbia.
Il pubblico continuava a ridere ma io e Marie eravamo consci che non si trattava di un spettacolo comico.
“Voi appartenete a quella gabbia, io no, voi sì, io no, voi sì. Io no. Voi sì. Davvero è gioia se viene costruita sulle spalle di chi mangia il fango? Alzate lo sguardo e osservate. L’aquila non vola davvero, crede di volare, ma è appesa ad un filo su un cielo che si muove. Ma come può volare? Cosa da energia alla macchina?” La maschera ottenne l’espressione di un volto piangente con lacrime rosse. “Sangue. Sangue di Verità. Religione? No. Scienza? No. Il suo nome è Umanità. Io sono te, tu sei me, il tuo sangue, la tua carne, la tua pelle, sono il mio sangue, la mia carne e la mia pelle. Io sono te, tu sei me. Siamo Umanità. Uno in tanti, tanti in uno. Questo è il vero nome di Verità.”
Il pubblico si mise a ridere e ad applaudire.
“Se io taglio me, tu soffri. È simpatia. Umana empatia. La vera sintonia. Ma seppellire Verità-Umanità è tapparsi le orecchie, divorare il suono e rimpiazzare l’esistente con l’inesistente. Ora tendi l’orecchio verso di me. Tu mi senti, vero? Tu mi capisci, vero? Tu sei l’unico che capisce me, vero?” Sulla maschera comparve un sorriso. “Balla e gioisci, fermati e disperati, perché casa mia è casa tua.” Rise, pianse, rise di nuovo e di nuovo pianse. “Piegati, umiliati, che la tua fronte tocchi il grembo della terra, gira la testa, tutto gira, e strappati la faccia. Tu non sei più te stesso ora sei solo te. L’ombra, l’impronta su una distesa di sabbia, il pezzo mancante in questo castello di specchi. Spaccati la testa finché puoi, mantieni tua la testa o essa subirà l’infausto destino e sarà chiamata circo.”
Quella specie di giullare fece un inchino e il pubblicò applaudì un'ultima volta prima di abbandonare la stanza. Solo io e Marie rimanemmo, ancora scioccati da quello spettacolo surreale.
Entrò il Direttore.
“Dio non esiste.” Le sue parole vennero seguite da un applauso da parte di quell’arlecchino.
“Che cos’è questo posto davvero?” domandai io, ancora scosso e confuso.
“Il Purgatorio, probabilmente, ma sicuramente una tua qualsiasi interpretazione condotta dalla fantasia andrà benissimo. Non sono le definizioni ad avere rilevanza ma è ciò che siete voi. Un caso, una particolare anomalia. Qualcosa che è necessario correggere. Voi avete l’Udito. Potete sentire.”
“Cosa significa?” domandò Marie, spaventata.
“La mia voce è Autorità e tutti possono e devono udirla. Ma gli esseri umani, fra di loro, non si capiscono e mai si capiranno. Le persone non sentono niente, rispondono sempre a ciò che credono di sentire. Sostituiscono la realtà con la bella fantasia. Tuttavia c’è chi, come voi due, possiede l’Udito e può sentire la sua voce.” Indicò quel giullare. “La sua voce è Verità o, come la chiama lui, Umanità. Nessuno può udirlo eccetto voi due, per questa ragione la correzione è necessaria. Bisogna esportare il tumore, risolvere il problema altrimenti scoppierà una rivoluzione.”
Marie mi prese la mano e mi condusse di corsa verso l’uscita ma la porta era sigillata.
“Non si scappa dalla cura.”
“Ma tu chi sei?”
Egli non rispose alla mia domanda, finse un sorriso e schioccò le dita, quindi scese il buio.
 
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in una cella assieme a Marie Ossler, le sbarre erano di ferro e l’intera struttura era di cemento. Nella stanza c’erano un grande letto con un materasso colmo di lacerazioni, un gabinetto, un lavandino con uno specchio rotto, un tavolo ed una sedia. Oltre le sbarre c’era solo il silenzioso nero. Alzai lo sguardo e notai che sul soffitto della cella erano stati incisi due immensi occhi spalancati ed una scritta ‘Nosocomio dell’Alba’.
Non so quanto tempo restammo in quella prigione … posso solo dire: abbastanza da farci l’abitudine. La mia relazione con Marie Ossler proseguì all’interno di quel piccolo mondo di cemento. Venivamo nutriti solo una volta al giorno con una bottiglietta d’acqua, pane e una mela; il cibo veniva lasciato davanti alla gabbia e quando cercavamo di scoprire chi ce lo stesse portando non arrivava; così ci rassegnammo.
La convivenza con Marie fu inizialmente complicata per me, ma alla fine noi due ci avvicinammo e consumammo il nostro primo rapporto carnale. Al quarto lei rimase incinta; disperata, perché non voleva avere un figlio in quella gabbia, decise di togliersi la vita tagliandosi la gola con un frammento di specchio. Piansi come mai avevo pianto in vita mia. Il giorno seguente passò il Direttore, comparso dal buio, lasciò cadere oltre le sbarre dei fogli di carta insieme ad una penna.
“Cosa vuoi da me? Hai già avuto abbastanza. Mi hai già tolto ogni libertà, ogni briciolo di dignità, mi hai persino strappato l’amore della mia vita. Che cosa vuoi da me? Che cos’altro vuoi da me?”
“Niente. Non ho mai voluto niente da te.”
“Allora cos’è quella roba?”
“Sei stanco. Debole. Incapace di reagire. Sei il più fragile fra gli esseri umani, ma forse puoi dare un contributo a questo mondo … puoi scrivere le tue memorie, puoi scrivere tutto quello che vuoi. Saprò io cosa farne di quei fogli.”
“Ma perché adesso?”
“Perché ora sei fertile. Condannami se vuoi, ma è giusto così. Ciò che tu hai subito è stato giusto. Questa è la mia Legge.”
Scomparve. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.
 
Ho scritto questa storia per i posteri, al fianco del corpo della donna che amavo. Forse un giorno qualcuno di voi scoprirà che cosa è successo e chi è il Direttore. Forse qualcuno di voi svelerà il mistero di questo mondo così depravato.
Ciao, Marie Ossler, mia amata, oggi ti raggiungerò.
 
Nota dell'autore
Questo racconto è ispirato ad un sogno che ho fatto, ho cercato di trascrivere il sogno nella maniera più accurata possibile e per questo potrebbero esserci delle cose strane e quasi assurde. Ma spero che vi sia piaciuto.😅

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