martedì 27 ottobre 2020

La prima imperatrice - Pollia

Una Venere con il volto di Giunone. Non esiste descrizione più accurata di quella donna che servivo e che seguivo ogni giorno. La prima volta che la incontrai ero appena stata comprata da un tale chiamato Marco Claudio Marcello. Il mio nome precedente, che lui riteneva orrendo, venne cambiato in ‘Pollia’; venni vestita con abiti umili e sporchi e venni condotta sul Palatino in quell’abitazione dove sapevo risiedeva un uomo che tutti temevano. Il mio primo pensiero fu ‘Ecco, ora mi metteranno al servizio dell’imperatore’ … ma non fu così. Marcello mi portò in questa stanza dove conobbi una giovane donna che all’inizio scambiai per una serva.
L’unica cosa che lui mi disse fu:
“Non farla arrabbiare e non avrai problemi con nessuno.”
Non era una serva.
Lei si voltò verso di me nell’esatto momento in cui Marcello lasciò la stanza, per un attimo avrei preferito tornare in quella terribile asta di vite umane piuttosto che vedere in faccia la donna che avrei dovuto servire.
Eravamo faccia a faccia ed io rimasi sinceramente scioccata nell’apprendere che era davvero una bellissima ragazza, sembrava una principessa delle favole. Aveva capelli bruni, chiari, ed i suoi occhi erano dello stesso colore del cielo; il suo giovane volto era bellissimo, anche se un po' gonfio sulle guance e sul mento; aveva le sopracciglia fini ed una fronte leggermente larga.
Quando quella ragazza mi vide mi sorrise e si alzò per guardarmi da vicino. La sua pelle era priva di imperfezioni, il suo corpo odorava di menta e le mani con le quali mi toccò il volto erano morbide. Mi toccava con la stessa tenerezza di una madre, il suo sorriso era dolce ma i suoi occhi erano freddi, come quelli di un matematico.
Livia Drusilla Claudia
Mi guardò negli occhi poi si allontanò e mi disse:
“Apri le braccia.”
Io eseguii.
“Fai un giro completo ma piano.”
Eseguii il comando.
“Bene. Quegli abiti dovranno essere puliti e dopo potrai presentarti in pubblico con me. Un’ultima cosa, però: come ti chiami?”
“Po-Pollia.”
“Bel nome. Anche se non è il migliore.”
Da quel momento la mia vita cambiò completamente. Ero stata comprata al mercato degli schiavi ed ero stata condotta sul Palatino dove risiedeva l’uomo più potente del mondo e lì incontrai la donna più potente del mondo: Livia Drusilla Claudia.
Descrivere l’imperatrice in poche parole è abbastanza complicato ma comunque ci proverò. Livia non era una ragazza che amava mettersi in mostra, quando uscivamo insieme non si metteva mai dei gioielli ed i suoi abiti erano sempre scuri; io dovevo starle dietro, non dovevo mai sorpassarla e quando incontravamo altre matrone dovevo stare zitta e lasciare parlare lei. Le donne che incrociavamo non erano come Livia, indossavano abiti più sfarzosi ed erano molto più truccate e soprattutto indossavano tonnellate di gioielli; nonostante Livia sembrasse una stracciona non troppo diversa da me, loro la seppellivano di complimenti e lei li accettava senza mai ricambiare il favore. Era bravissima a fingere di essere timida.
Quando passavamo vicino agli uomini questi si spostavano e la salutavano guardandola negli occhi. Anche loro avevano la bocca piena di complimenti.
Quando passavamo per i mercati le merci le venivano offerte ma lei rifiutava sempre con molta cortesia, tuttavia quando non poteva farlo dava le cose a me e mi diceva che erano dei regali che io potevo conservare; non mi era permesso rifiutare i regali.
Livia si svegliava sempre prima di suo marito e andava a letto presto. Non mangiava molto però camminava spesso. Quando stava in casa lasciava a me il compito di cucinare, tuttavia dovevo farlo sotto il suo sguardo vigile; le piaceva moltissimo insegnarmi a preparare i pasti e non aveva peli sulla lingua quando doveva criticarmi. Lei cuciva personalmente gli abiti del marito e gli acconciava i capelli.
Se Livia non era impegnata in attività casalinghe e se non aveva voglia di camminare allora si dedicava alla poesia oppure, semplicemente, andava alle terme per rilassarsi. La prima volta che la accompagnai alle acque termali ero sinceramente curiosa di scoprire che corpo nascondesse sotto quegli abiti; che donna poteva essere la moglie dell’imperatore? Avevo sentito parlare della bellissima regina d’Egitto e se davvero era così bella, come si diceva, allora doveva essere, come minimo, simile a Livia Drusilla.
La prima volta che vidi il suo corpo nudo rimasi incantata da quello splendore divino. Aveva il corpo di una Venere, ben proporzionato e senza eccessi; i suoi capelli, che teneva sempre acconciati, erano abbastanza lunghi da toccarle le spalle. Quando la aiutavo a lavarsi mi era proibito fare osservazioni sul suo corpo e mi era, soprattutto, proibito di parlarne con altre persone.
Il suo stile di vita e la sua bellezza divina mi colpirono, ovviamente, ma erano nulla se paragonate al potere che possedeva. Io ero una schiava, nulla di più. Non conoscevo lo stato di una donna comune a Roma, ma probabilmente non stava meglio di quelle della Grecia, tuttavia ero certa, anzi, ero sicurissima che nessuna donna potesse avere più potere di un uomo. Non avevo ancora incontrato Livia Drusilla Claudia.
Non solo lei gestiva i soldi di casa, il che era abbastanza strano, ma gestiva anche le finanze dello stato. Ottaviano Augusto era più gracile di lei e anche più docile, non osava mai alzare la voce in sua presenza e sempre ubbidiva in silenzio quando lei prendeva una scelta. Forse non era Augusto il vero imperatore di Roma, forse era davvero lei.
Le regole di Livia erano ferree e tutti coloro che osavano violarle venivano cacciati da casa sua, se lei era di buon umore … ma se era di cattivo umore poteva anche decidere di usare metodi più estremi. Per lei chiunque la attaccasse personalmente, cittadino Romano o no, doveva essere punito severamente; non conosceva pietà né per amici e nemmeno per famigliari.
Una volta, non so per quale ragione, arrivò persino a cacciare di casa un uomo che aveva osato fare una pessima battuta a sfondo sessuale su di me mentre era in presenza di Livia; lei odiava la volgarità e quell’uomo non mise più piede nel Palatino per almeno due anni.
Era una donna intransigente, sì, ma aveva anche un particolare senso dell’umorismo. Io, per la cronaca, ero la più simpatica fra le due e conoscevo diverse barzellette; però lei amava soltanto quelle sugli animali, non so perché ma lei rideva fino a lacrimare quando gliele raccontavo. Mi era proibito farla ridere in pubblico.
Ammetto che con il tempo mi abituai al suo carattere e ai suoi sguardi che potevano mettere in soggezione persino un leone. Ricordo quando passò quel giovane uomo di nome Tito Veturio, se non erro, egli doveva chiedere un favore all’imperatrice e, ovviamente, riuscì a farla innervosire, anche se non troppo perché alla fine lei gli diede il denaro di cui aveva bisogno.
Soltanto una volta io ebbi un confronto con lei. Era da poco morto Marco Claudio Marcello. Io non odiavo quell’uomo, non mi stava simpatico, ma non provavo rancore per lui. Sapevo che Livia era stata accusata da alcuni di aver orchestrato il suo assassinio e fu solo per caso che la cosa saltò fuori durante un momento in cui eravamo insieme. Ero da sola con lei e la stavo aiutando a vestirsi quando la sentii mormorare qualcosa del tipo:
“Maledetti arroganti.”
“Come?” le domandai io sorpresa da quel commento a vuoto.
“Scusami, Pollia, non volevo disturbarti. Continua pure.”
“No, no … è solo che … mi sembrava un po’ irritata. Qualcosa non va?”
“Oh, lo sai benissimo che qualcosa non va. Anche tu hai le orecchie, no?”
“Io …”
Non volevo farle capire che io sapevo delle accuse ma lei, con i suoi occhi penetranti, aveva intuito tutto soltanto guardandomi.
“Smetti con questa recita, Pollia, sei patetica.”
Come al solito era tagliente nei suoi commenti. Diceva sempre quello che pensava e non le importava della reazione delle persone.
“Io so, sì” le dissi io.
“E hai già preso una decisione?”
“Non me ne intendo di queste cose.”
“Mi insulti, Pollia, non mi piace. So perfettamente che è probabile che tu ti sia schierata con i miei accusatori. Tu sei una schiava, dopotutto.”
“Questo non significa niente.”
“Significa che brami la libertà più di ogni altra cosa. Questo è il tuo ruolo nella vita. Perciò è lecito pensare che tu farai ogni cosa in tuo potere pur di tornare nella tua terra natale. È comprensibile ed è logico.”
“E se non fosse vero?”
“Allora saresti una strana schiava. Ne ho viste di donne a quelle aste. Ne ho viste tante. Nude, trattate come bestiame e vendute come oggetti. Allo stesso modo degli uomini.”
“E la cosa come ti faceva sentire?”
“Potente” rispose lei guardandomi negli occhi.
“Potente? Perché?”
“Perché io non sono come loro e per questo posso fare di più di loro. Questo potere posso usarlo per cambiare Roma, trasformarla in qualcosa di nuovo. Nessuno di voi schiavi potrebbe mai ottenere un simile potere, neanche se si ribellasse.”
“Uno schiavo ribelle può cambiare un intero impero.”
“Sagace,” commentò lei con un sorriso di approvazione “tuttavia è falso. Uno schiavo ribelle non avrebbe interesse a cambiare le istituzioni di una città, egli preferirebbe bruciarla e gettarla nel caos piuttosto che fare un compromesso con essa. Pensa a Spartaco. La libertà, per uno schiavo conta di più dell’ordine e per questo egli è incapace di capire come cambiare una società. Egli riduce il cambiamento ad una temporanea condizione del suo ego: o è libero o manca di libertà. Anche tu sei così Pollia.”
“E credi che questo giustifichi il modo in cui ci trattate? Parli bene, Livia, ma sai di camminare sulla schiena degli schiavi. Le persone come te sono ingiuste.”
Non l’avevo mai chiamata per nome prima e lei non ci fece neanche caso.
“Giusto e sbagliato non significano niente per me. Credi che sia giusto che una schiava viva in una villa e che possa mangiare del cibo sano e che possa dormire in un letto e che possa fare il bagno con la sua padrona, mentre un altro schiavo lavora in miniera?”
“Ma non ho scelto io di stare in questa villa.”
“Ma hai scelto di non scappare. Hai scelto di vivere in quel minimo lusso che ti era concesso piuttosto che ribellarti e ripetere le azioni di Spartaco. Quindi questo cosa ti rende? E che mi dici di quegli schiavi che sono stati liberati? Hanno mai combattuto per coloro che sono schiavi adesso? No? Allora significa che parlare di giusto e sbagliato non serve a niente.”
“E allora cosa ti interessa, imperatrice Livia Drusilla Claudia? Se non sei interessata alla giustizia a cosa sei interessata?”
“Cambiamento. Io voglio ottenere qualcosa di materiale. Voglio cambiare Roma. Sono la prima donna in questa posizione e non voglio essere l’ultima.”
“E poi? Cosa succederà poi?”
Lei sorrise. Non mi rispose. Mi disse di seguirla fuori dall’abitazione. Si era appena sollevato un vento caldo e il sole illuminava quel bellissimo ma agghiacciante volto. Livia mi guardò e mi domandò:
“Tu credi che io abbia ucciso Marcello?”
“Perché avresti dovuto farlo?”
“Forse perché era un ostacolo per far salire al trono una persona scelta da me. Forse perché era troppo spavaldo e rivoltoso per i miei gusti. Forse perché ero arrabbiata con lui per una qualche ragione triviale. Avrei avuto diverse ragioni per ucciderlo, in realtà.”
“Vuoi che io ti accusi?”
“Voglio una risposta. Sì o no.”
“Perché da me?”
“Ti conosco da tanto tempo ormai, ti considero parte della mia famiglia e so che tu conosci me, sai forse troppe cose di me. In momenti come questo il mio potere vacilla, i più stolti e i più arroganti, fanno la fila solo per screditarmi e per mettermi in cattiva luce. Non posso fidarmi di nessuno.”
“Tuo marito è l’imperatore, no? Potrebbe fare qualcosa per aiutarti.”
“Ottaviano è un grande uomo, ma non sono così sciocca da pensare che lui dia più valore a me che alla sua immagine pubblica.”
“E le matrone?”
“Sono sgualdrine. Sono finte. Non avrebbero problemi a pugnalarmi alla schiena.”
“Hai anche un circolo di persone fidate, no?”
“Sì, ed io so che stanno dalla mia parte. Quindi chi rimane?”
“Io.”
“Acuta” commentò lei con un sorriso falsamente sorpreso.
“E cosa vuoi che dica?”
“Io non lo so. Dimmi tu. Dammi una risposta. Sì o no.”
“Potrei rispondere ‘no’ per avere salva la vita, non credi?”
“Ma potresti rispondere ‘sì’ per metterti contro di me, la tua padrona.”
Non voleva lasciarmi. Mi sentivo come in una tela del ragno e lei era lì, davanti a me, in attesa di una risposta decisiva.
Io però conoscevo quella donna. Non era una sconosciuta, era la stessa Livia con cui passavo ogni momento della giornata, era la stessa ragazza che accompagnavo per le strade di Roma, ed era la stessa donna con cui mi intrattenevo in lunghi dialoghi.
Poi capii che cos’era quello. Quella domanda non me l’aveva fatta a caso. Era come un banco di prova, voleva capire chi era leale a lei e chi no e soprattutto voleva sapere fino a che punto poteva fidarsi di me. Era tutto preparato sin dall’inizio. Eravamo le uniche in quell’abitazione, gli altri erano fuori, io avrei potuto tradirla tranquillamente e andarmene, dopotutto lei era conscia di essere più fragile di me. Era ovvio. Praticamente mi aveva consegnato un pugnale e mi stava dando la possibilità di scegliere se ucciderla oppure se risparmiarla.
Non era una donna sciocca, non lo era per niente.
Io allora presi la mia decisione e le risposi:
“Non ha importanza se tu hai ucciso o no Marcello, l’importante è che non sia più in circolazione.”
Lei sorrise. Approvò la mia risposta. Mi abbracciò come una madre, mi accarezzò la testa e mi disse:
“Finalmente hai capito. Finalmente hai capito tutto, mia cara Pollia. Ora sì che posso davvero fidarmi di te.”


lunedì 26 ottobre 2020

Paura della malattia

di SebMcKinnon
Logora il cuore, spezza le ali
argentate, il ronzio dell’angoscia;
abbraccia, stringe, soffoca
una catena strozza le braccia,
i sussurri sono cemento sulle spalle,
la bocca fatica a parlare.
La fame dei sensi è il respiro
della paura;
tutto è muto, nero, privo di sostanza,
si deforma, si contorce la melodia
della paranoia;
muta, è mutato,
ciò che prima era è già stato;
evolve,  cresce e si gonfia
come un tumore, sotto la pelle,
nascosta nella carne,
divora, dilania e diletta
il proprio ego mutaforma.
E cade! Con un tonfo, tuonante come
il tamburo della tempesta;
giace in silenzio, assopita in attesa,
la lupa nella caverna
con le zanne tinte di rosso.
 
Storia della poesia:
in realtà non credo di spiegare il tema principale della poesia. Il mio scopo era quello di provare a descrivere le sensazioni che sono date dalla paura di qualcosa che non si conosce e che potrebbe colpirti in un qualsiasi momento. Ammetto che la protagonista della poesia non è la semplice paura della malattia ma la Paura (che in realtà sarebbe l'angoscia) ... tuttavia ... non so se sono riuscito a descrivere questo oscuro sentimento in modo accurato. Sta al lettore decidere, giusto?
L'unica cosa che dico è che in questi momenti è importante non lasciarsi influenzare dall'angoscia, comprendo la paura di ciò che non si conosce, ma bisogna cercare di affidarsi alla razionalità il più possibile; non limitare le proprie emozioni ma affrontare le cose con un minimo di maturità. Tutto qui.


domenica 25 ottobre 2020

Birli

La neve scende,
la neve cade.
Solo un ricordo rimane,
il resto è silenzio.


Storia della poesia:
Questa poesia la scrissi il 27 marzo 2020, giorno in cui nevicò. Ero in cucina, stavo preparando da mangiare e il gatto che avevo (Birli) era appena stato portato dal veterinario. Ricordo che mi misi a guardare un ramo di un abete ricoperto di neve; la neve cadeva da quell'albero dopo essere appena scesa dal cielo e si scioglieva immediatamente sul cemento. Guardando quella scena pensai a quella poesia e per un attimo mi venne da piangere.
Ho intitolato questa poesia "Birli" perché la notte del giorno dopo il mio gatto, dopo sedici anni passati insieme, è morto. Ammetto che quello è stato uno dei momenti più brutti della mia vita. Quindi questa poesia parla di lui ma forse anche di tutti noi. Siamo tutti come la neve: nasciamo, viviamo e moriamo. Come la neve che scende, cade e si scioglie. Ciò che è stato non si può recuperare, rimangono solo i ricordi felici circondati dal silenzio.

sabato 24 ottobre 2020

La cella del manicomio

di H. Bosch
La luce scandisce una
melodia di ferro.
Le catene di una
cella senza tempo,
coperta dalla maschera
del fallimento.
Il teatro della follia
naviga sul proprio
riflesso, e marcisce
alla vista della propria
gabbia.
 
Il folle saggio realizza,
la propria stoltezza,
dinnanzi al saggio folle.
 
Storia della poesia:
scritta il 21 dicembre 2019, si tratta del risultato di una lettura di Storia della follia nell'età classica del filosofo Michel Foucault. Il libro mi colpì così tanto che decisi di scrivere una poesia riguardo ai folli cercando di pensare alla gabbia nella quale era costretto a stare il matto del XVI secolo. Ci sono dei chiari riferimenti alla Nave dei folli di Bosch che a me colpì molto. I folli venivano buttati fuori dalle città e caricati sulle navi mercantili che poi li abbandonavano nei porti stranieri dove si fermavano, così nacque l'immagine del folle errante e solitario e della Narrenschiff. Nell'epoca dell'Illuminismo iniziò l'internamento di massa dei malati di menti che venivano considerati praticamente come criminali, essi erano la vergogna della società.

Parassita

di SebMcKinnon
Fiore d’inverno sboccia
tra fiocchi di sangue,
e divora le radici
della primavera,
assiderata.

Storia della poesia:
scritta il 18 dicembre 2018. Ero in sala d'attesa per il medico, fuori era notte e non sapevo cosa fare. In quel momento di noia la mia mente viaggiò fra i ricordi più tristi della mia vita e la cosa mi stava dando fastidio. I brutti ricordi sono spesso come parassiti che impediscono alla mia fantasia di viaggiare liberamente e la loro stessa esistenza mi riempie di pessimismo; i brutti ricordi mi regalano solo dubbi e paure; i brutti ricordi dipingono la mia vita in modo distorto e mi fanno pensare di aver sbagliato cose che in realtà avevo fatto bene; si comportano come catene che impediscono l'azione.
Francamente, concepisco l'importanza di ricordare i momenti brutti ma non voglio valorizzarli troppo.

venerdì 23 ottobre 2020

Il soldato sorridente

di AustenMengler
Fiamme e scintille;
la tumultuosa carica e le urla tuonanti;
il triste sangue di mille
e la malinconia dei fanti.
Strilli di pietà
dinnanzi alla superiore viltà,
che sia un sogno o un incubo,
il soldato sorridente,
lentamente e morente,
ride immergendosi in un silenzioso pianto
al ricordo di sua madre,il canto.
 
Storia della poesia:
scritta pensando alla Prima Guerra Mondiale. Andavo ancora a scuola quando la scrissi (quarta o quinta liceo) e, basta, in realtà. No, seriamente. Non credo ci sia altro da aggiungere.

La prima imperatrice - Tito Veturio

Ero stato mandato sul Palatino per incontrare l’imperatore Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto su richiesta di Aulo Vibio. Non avevo mai incontrato l’imperatore di persona e quando mi venne detto di fargli visita, io rifiutai; poi mi venne promessa un’ingente somma di denaro e come ogni brav’uomo Romano, e padre di famiglia, non potevo di certo rifiutare una simile offerta.
Tuttavia, a pochi passi dalla modesta abitazione sul Palatino, il mio cuore iniziò a sobbalzare dalla paura. Stavo per fare la conoscenza dell’uomo più potente del mondo e non solo, ero stato mandato con il preciso compito di fare una richiesta di denaro per pagare dei soldati che avrebbero dovuto accompagnare Aulo Vibio in un viaggio da Roma fino a Bononia, per portare delle merci di valore.
Ero davanti alla soglia pronto ad attraversarla con un piede, mi tirai indietro e ripetei a me stesso di farmi forza; non potevo concedermi il lusso di fare delle pessime figure dinnanzi all’imperatore figlio di Giulio Cesare. Ero sul punto di fare marcia indietro e tornare da Aulo Vibio, restituirgli i soldi e cambiare lavoro, quando vidi entrare un giovane uomo. Egli mi aveva ignorato all’inizio ma poi si girò verso di me e mi domandò:
“Sei un messaggero?”
“No …” risposi io con una voce roca.
“Allora come posso aiutarti?” il suo era un atteggiamento amichevole.
“Io … ehm …” Mi rischiarii la voce tossendo e poi dissi: “Sto cercando l’imperatore.”
“Allora entra. Non startene lì come uno scemo” disse sorridendo.
“Grazie.”
Entrai in quella casa che non sembrava per niente l’abitazione di un imperatore. Era piuttosto umile: non c’erano troppe decorazioni, non c’erano oggetti pregiati ed era anche più piccola di quello che avrei immaginato. Il giovane uomo mi accompagnò.
“Come ti chiami?” mi domandò.
“Tito Veturio.”
“Marco Claudio Marcello, ma tu puoi chiamarmi Marcello.”
Era il nipote dell’imperatore, ne ero sicuro. Quando venni a conoscenza della sua identità iniziai ad agitarmi ma lui, rendendosi conto della mia reazione, mi diede una pacca sulla spalla e mi rassicurò:
“Tranquillo non mordo.”
“E che mi dici dell’imperatore?”
“Lo scoprirai sulla tua pelle” disse ridendo.
Finalmente raggiungemmo quell’uomo vestito con umili abiti, simili a quelli di un plebeo, che se ne stava seduto a mangiare della frutta in silenzio. Il suo volto era asciutto, aveva i capelli bruni ben acconciati e i suoi occhi scuri stavano ammirando il panorama al di fuori della finestra. Marcello si avvicinò per primo, salutò e mi presentò:
“Questo è Tito Veturio. Vuole parlare con te.”
“Di che cosa?”
Aveva una voce più leggera di quella che mi sarei aspettato da un uomo di potere. Alcuni lo paragonavano ad una divinità, altri dicevano che era un messia, ma la sua giovane voce era poco divina e non s'addiceva ad un uomo di potere; eppure bastò un suo sguardo per mettermi in soggezione. Mi stava scrutando, stava cercando di capire che tipo fossi. Non mi fece domande, mi guardò e basta.
Il suo sguardo era intenso, non era malvagio, era pacato come quello di un saggio ma anche colmo di sicurezza; quella era l’occhiata di un uomo che sapeva di avere il mondo in mano.
Egli disse:
“Avvicinati.”
“Sono lieto di fare la sua conoscenza, imperatore Augusto!” esclamai io come un ebete.
“Certamente, ma cosa vuoi da me?”
“Io … sono qui su richiesta di Aulo Vibio. Ha bisogno di soldi per almeno venti uomini che dovranno proteggere un … ehm … un carico di merci molto preziose.”
“Di che cosa stiamo parlando?”
“Statue e vasellame. Devono essere portate a Bononia.”
“Mm.”
Augusto guardò Marcello appoggiando il mento sul palmo della mano. Guardò me e poi di nuovo Marcello.
“Non posso spendere dei soldi senza un’attenta valutazione. Chiederò alla persona che si occupa delle finanze.”
L’imperatore si sollevò e lasciò la stanza solo per un attimo. Marcello, intanto, si avvicinò a me, mi diede una lieve gomitata e mormorò:
“Bella figura.”
Era sarcastico.
“Lo so, ho fatto schifo” risposi io.
“Se lo dimenticherà. E poi anche lui tende ad essere un po’ impacciato con gli sconosciuti, è solo che cerca di non darlo a vedere.”
Livia Drusilla Claudia
Poi vidi tornare Augusto insieme ad una donna e la cosa mi lasciò di stucco. Era una giovane donna vicina alla trentina, anche lei era molto umile come l’imperatore: non indossava gioielli e i suoi vestiti erano molto scuri. Aveva i capelli di un bruno acceso e i suoi occhi erano celesti. Quando l’imperatore si sedette, lei si accomodò vicino a lui.
“Iniziamo?” domandò l’imperatore.
“E dov’è quello che gestisce il denaro?”
“Qui” rispose lui indicando la donna.
Rimasi sinceramente scioccato nell’apprendere che a gestire i soldi a casa dell’imperatore fosse proprio una donna. Lei, notando il mio atteggiamento contrariato, sollevò un sopracciglio, poi sospirò e infine disse:
“Costui è una perdita di tempo. Non darei mai dei soldi ad uno che ha la faccia di uno scriteriato.”
Aveva una voce bellissima ma quello che disse fu talmente veloce e tagliente da lasciarmi senza parole.
“Ne sei sicura, Livia?”
“Sicurissima. Abbiamo finito, quindi?”
Il nome di quella donna era Livia, quindi lei era l’imperatrice Livia Drusilla Claudia. Avevo sentito parlare di lei, sapevo ad esempio che molte matrone la rispettavano tantissimo, talmente tanto da volerla emulare; ma non avevo mai visto quegli occhi penetranti come quelli di un lupo e scaltri come quelli di una volpe.
Livia era sul punto di andare quando Marcello intervenne in mio favore:
“In realtà lui rappresenta qualcun altro.”
Lei lo fulminò con gli occhi e disse, freddamente:
“E chi? Un qualche stolto che vuole farci sprecare denaro come plebei nella taverna? Il tesoro di Roma non verrà sperperato da inetti.  Spero di essere stata abbastanza chiara, Marcello.”
“Chiarissima, tuttavia qui si sta parlando di statue e vasi.”
“Esattamente!” esclamai io.
“Ma davvero? E dove dovrebbero arrivare?”
“Bononia. Ma si tratta di un carico troppo prezioso per rischiare di farlo viaggiare senza l’adeguata protezione.”
“E il tuo capo? Non potrebbe pensarci lui?”
“Lui è molto pignolo e, se devo essere sincero, è un po’ paranoico … comunque desidera avere dei soldati esperti non dei banalissimi mercenari.”
“E noi cosa ci guadagniamo?”
Lei era davvero una scheggia a fare delle domande ed io faticavo a tenerle testa; stavo letteralmente sudando come in una giornata estiva.
“Le statue … che ...” persi le parole per un attimo.
“Coraggio,” disse lei “convinci questa donna a investire su di te, sempre che tu ci riesca. Diffido sempre degli incompetenti, sono loro che creano problemi.”
“Le statue … rappresentano sia l’imperatore che lei, mia imperatrice, ci sono anche statue di Giulio Cesare e il vasellame ha dei ritratti mitologici. Il beneficio non sarà monetario ma alimenterà la vostra fama. È un contributo al vostro potere.”
Lei rimase in silenzio.
“Che ne pensi?” domandò Marcello.
“A me sembra accettabile” aggiunse Augusto.
Lei non aveva ancora detto una parola. Mi guardò con quegli occhi perforanti, strinse di poco le palpebre e abbassò le sopracciglia; mi stava studiando come un lupo che si prepara ad azzannare la preda.
In quel momento entrò un altro uomo che doveva parlare con Augusto, l’imperatore si alzò e ordinò a Marcello di seguirlo in un’altra stanza. Rimasi da solo con Livia.
Lei era in piedi e continuava a fissarmi. Mi agitai e la prima cosa che feci fu guardare verso l’uscita, ero pronto a buttarmi fuori da quella casa.
“Come ti chiami?” domandò Livia.
“Tito … Veturio” risposi io, con un modo un po’ impacciato.
“Mi ricorderò di questo nome. Sembri un cretino ma forse è solo l’apparenza.”
“Quindi …”
“Dì al tuo capo che avrà i soldi per quelle guardie.”
“Grazie. Apprezzo moltissimo questa gentilezza.”
Mi voltai per uscire.
“Veturio,” disse lei “un’ultima cosa.”
“Sì?”
“Ho visto come mi guardavi, so che forse non ti piace l’idea di avere a che fare con una donna di potere ma sappi questo: io sono la prima e non sarò l’ultima. Un giorno, a Roma, donne e uomini regneranno fianco a fianco con pari poteri e quel giorno una nuova alba splenderà sul mondo.”
“Un bel sogno, su questo non ci sono dubbi.”
“Credi che sia solo un sogno?” mi chiese sorridendo con compassione.
“Trovo che sia complicato, tutto qui.”
“Qualcosa che è complicato non è impossibile. Guardami negli occhi, guarda chi sono e dimmi ancora che è solo un sogno ciò che voglio costruire.”
Non seppi cosa dire a quel punto. Non aveva torto. Lei era arrivata dove nessuna donna Romana era riuscita a giungere, aveva conquistato una posizione di potere che nessuna donna Romana aveva mai ottenuto. Forse lei rappresentava davvero l’inizio di qualcosa di nuovo.
Lasciai quell’abitazione con la chiara immagine, nella mia testa, dei suoi occhi celesti, penetranti, intelligenti e potenti.
Alla fine diedi la buona notizia ad Aulo Vibio e la spedizione fu un successo. Non mi si presentò più l’occasione per visitare la modesta abitazione sul Palatino. Diversi anni più tardi venni a conoscenza della triste morte di Marco Claudio Marcello, cosa che mi lasciò con dell’amaro in bocca, e l’imperatrice venne sospettata di averlo assassinato. Io non ero fra quelli che dubitavano della sua sincerità, anzi, non avrei mai potuto accusare una figura come lei; andando avanti con gli anni, nella mia mente, si delineò l’immagine di un’imperatrice perfetta e pura come una vestale; alla fine venni persino travolto dalle crisi d’amore tipiche di un uomo che non ha quello che desidera. Volevo rivederla. Volevo rivedere quella donna perfetta, quella perfetta imperatrice. Volevo parlare ancora con lei.
Rinunciai alla famiglia e ai figli pur di stare da solo con l’immagine dell’imperatrice perfetta che, nella mia mente, mi stava attendendo nella sua umile abitazione.
Ma non la rividi mai più.

Folle ingenuità

di wwysocki
Giocano ingenui fanciulli,
volti sorridenti,baciati dal sole;
sincero sorriso,una Madre,
che,con eleganti danze,con loro
volava nel mondo infantile.
Ma volava anche la fredda,irrazionale e letale
creatura d'acciaio,cielo oscurato
non più amato,
solo temuto. Scanditi con ritmo,
musicale brutale,ed ecco il fuoco cadente
ardente. Ricordo quel bianco e limpido ruscello,
contaminato,ora,dal rosso;
dove sono i bambini? Le Madri? I Padri?
Ci sono non ci sono,è giunto
il cupo silenzio.
Giocano folli adulti,
volti sorridenti,baciati dalla guerra.

Storia della Poesia:
Una poesia che ho scritto quando andavo in seconda liceo. C'è una storia interessante dietro questa poesia, in realtà, perché la professoressa di italiano ci aveva chiesto di scrivere delle poesie su qualsiasi cosa che volevamo ed io volevo parlare della guerra e della sofferenza che essa causa. Ma questo si era capito, no? Certo che si era capito. La mia piccola opera in versi piacque molto sia a lei che alla classe ma questo non impedì alla medesima professoressa di rimandarmi perché era una stronza. 😒 
Ammetto che non è la mia preferita tuttavia ho voluto pubblicarla, ma ogni che la vedo ripenso a quella pessima, davvero pessima persona che mi insegnava italiano.

giovedì 22 ottobre 2020

Marie Ossler e l’Arlecchino di Mezzanotte

Le pareti bianche di quella stanza rettangolare riflettevano le ombre di una ventina di persone accoppiate dal Direttore; esse erano in attesa di assistere ad un evento, io non sapevo quale, talmente importante da aver fatto radunare altre cento anime nell’atrio al piano terra, dal quale io ero appena uscito. Costeggiavo con insicurezza e smarrimento un lungo tavolo in legno, vuoto, alla ricerca di qualcuno con cui parlare. Il Direttore non aveva ancora stabilito chi sarebbe stato il mio compagno o la mia compagna; non c’erano sedie in quella stanza, c’erano solo due porte una per salire e una per scendere; c’erano dei cartelloni colorati con animali disegnati da bambini e, più in alto, erano state appese delle maschere luccicanti con volti umani sorridenti e urlanti; oltre le finestre vedevo solo il nero e qualche chiazza bagnata illuminata dalla gialla luce.
Le persone in quella stanza erano vestite in modo elegante: gli uomini erano in nero, in grigio o in marrone; le donne erano in rosa, in giallo, in rosso o in viola. Io parevo uno straccione se paragonato a loro: la mia felpa scura vecchia di sei anni e sporca era accompagnata da dei pantaloni di velluto marroni e scarponi bruni. Alcuni mi guardavano, lo capivo anche senza la verifica dei miei occhi, quando mi giravo loro si giravano e provavano a nascondere i loro ghigni maligni.
Non sono un linguista quindi non potevo riconoscere le lingue che parlavano i diversi ospiti, forse alcuni erano inglesi, i francesi e i tedeschi erano i più semplici da identificare per me, altri parlavano in cinese, forse, o in coreano; come ho già detto non sono un esperto in queste cose, ma ero certo che nessuno di loro venisse dallo stesso paese eppure tutti si capivano perfettamente (cosa molto strana). Un francese parlava ad un tedesco ed il tedesco rispondeva. Dalle espressioni facciali e dalla fluidità dei loro dialoghi era facile dedurre che si stavano capendo eppure parlavano nella loro madrelingua e senza l’uso di traduttori. Non riuscivo a capire. Soprattutto non comprendevo perché io fossi l’unico incapace di intendere le lingue altrui, forse in mezzo a quella marmaglia altolocata io ero l’unico cervello d’asino.
Il Direttore fece il mio nome:
“Giorgio Sani.”
“Sono qui” dissi io con una voce debole e alzando una mano come se fossi uno studente interpellato da un professore; gli altri ridacchiarono a bassa voce vedendo la mia reazione.
“Giorgio Sani, quindi?” domandò il Direttore rivolgendosi a me.
“Sì, sono io.”
“Marie Ossler.”
Qualcuno si avvicinò. Io non mi girai per paura di vedere con chi mi avesse accoppiato il Direttore.
“Voi due siete gli ultimi. Fra trenta minuti lo vedrete” disse il Direttore avviandosi verso le scale che salivano.
Finalmente mi girai e venni colpito dal fascino di quella giovane fanciulla che dall’aspetto pareva una mia coetanea. Era alta come me, era magra ma non eccessivamente, aveva un nasino un po’ schiacciato e le sue labbra erano sottili; i suoi occhi erano celesti ed i capelli erano lunghi, biondi e mossi. Ciò che però attirò di più la mia attenzione non fu tanto la sua innegabile bellezza quanto il fatto che non nascondesse le sue imperfezioni; aveva due rossi brufoli nella sua guancia sinistra e ne aveva un altro oltre il sopracciglio destro; si poteva persino notare un lieve eczema nella parte sinistra del collo. Marie Ossler indossava un abito lungo, azzurro, non era decorato, e non era adornata con gioielli; ai piedi portava, curiosamente, non dei tacchi ma delle scarpe, somigliavano a degli scarponi più o meno, ed erano di un marrone scuro, molto scuro.
Dal suo nome avevo intuito che non era italiana e mi ero preparato al peggio, ovvero una catena di pessime figure su pessime figure che si sarebbero succedute fino alla fine della serata. Presi aria con la bocca, cercai di non dare l’impressione di essere agitato ma da come mi stava guardando capii che probabilmente avevo fallito. Mi voltai e mi diressi verso il tavolo lungo, lei mi seguì senza dire una parola e si fermò prima di me, quindi mi girai verso di lei e aspettai. Non avevo intenzione di essere il primo a parlare, un misto di timidezza e paura mi incatenavano la lingua e così rimasi zitto almeno per tre minuti, guardandomi attorno e fingendo, con le mie scarse capacità recitative, di non avere dei problemi a non rivolgerle la parola.
“Scusa” disse lei, poi si schiarì la voce “non sono brava in queste cose.”
Aveva una bellissima voce, pensai, e solo dopo realizzai che ero riuscito a capirla.
“Sei italiana?” domandai io.
“No, sono svedese.”
“Ma parli italiano?”
“No, parlo svedese, come te.”
Quella risposta mi lasciò attonito. Mi girai per ascoltare meglio le conversazioni altrui, non ci capivo un’acca, però potevo comprendere Marie. Ma io sapevo di non essere un linguista. Le cose allora erano due: o lo Spirito Santo mi aveva insegnato lo svedese mentre io dormivo oppure la bella Marie mi stava prendendo per i fondelli.
“Sì, ecco …”
Non sapevo cosa dirle, seriamente, quella situazione era davvero assurda ma me ne uscii con una domanda (che a ripensarci adesso fu molto intelligente):
“Tu capisci quello che dicono gli altri?”
“Gli altri?” Si guardò attorno per un attimo. Tornò da me e mi rispose: “Mm, no. Ma perché gli altri parlano lingue che io non conosco. Nessuno di loro è svedese. Credo di essere l’unica in questa stanza insieme a te.”
“Be’ io sono italiano, non svedese. Quando tu parli io ti sento parlare nella mia lingua.”
“Ma …” Non disse niente. Mosse gli occhi e li strinse, poi mi guardò e mi disse: “No, non ha senso. Io ti sento parlare in svedese … tu parli svedese. Lo sento. Lo capisco. È quello.”
“No, io non parlo svedese.”
“Ma capisci gli altri?” domandò lei, perplessa.
“Non conosco la lingua di nessuno, qui dentro. Mi sento l’unico italiano. Anzi, sono convinto di essere l’UNICO italiano. Come credo che tu sia l’UNICA svedese e quel tipo con la barba strana l’UNICO tedesco.”
“Ah-” trattenne la risata. “Scusa.”
“E per cosa?”
Il suo volto era diventato rosso, i brufoli erano quasi diventati invisibili.
“Non volevo essere sgarbata.”
“Stavi ridendo. Cosa c'è di sbagliato?” domandai io, confuso.
“Mia madre mi dice spesso che soltanto i pagliacci ridono quando è inopportuno.”
“Tua madre deve essere una personcina davvero deliziosa” commentai io con sarcasmo.
“Sì, lo so. È imbarazzante anche per me, ma non possiamo sceglierci la famiglia, giusto?”
“No, hai ragione, ma non dovresti sentirti in imbarazzo per lei.”
“Tu ci riusciresti?” chiese lei inarcando le sopracciglia.
“Non fraintendermi” dissi io “ma è più facile quando la persona di cui parli non c’è più. Nel mio caso specifico mia madre è morta un anno fa, non posso provare imbarazzo per quello che lei era perché ora non lo è più.”
“Freddo.” Il suo commento venne accompagnato da uno sguardo leggermente inquietato.
“Io e mia madre non eravamo in buoni rapporti.”
“Lo avevo capito.” Piegò lievemente la testa di lato. “Cosa ti faceva?”
“Mi criticava. Troppo. Ogni cosa che facevo era soggetta a critiche, su critiche, su critiche … non finiva più. Era una donna meschina, narcisista e priva di personalità. Si aggrappava costantemente al successo di sconosciuti solo per farmi sentire piccolo, dopotutto non poteva usarmi come fallo sociale. Per lei ero un fallimento costante.”
“E tuo padre?”
“Lasciò la famiglia non appena trovò l’occasione. Avevo solo cinque anni quando lui mi abbandonò. Non so che fine abbia fatto e non mi interessa.”
“Mi dispiace.”
“E tu? Che mi dici tuo padre?”
“Ehm … è difficile da dire …”
Marie aveva un modo di fare davvero grazioso, quando parlava si stringeva il fronte della gonna dell’abito con entrambe le mani e oscillava lievemente a destra e a sinistra; si capiva che era una persona che amava ascoltare, i suoi occhi erano sempre attenti ma il dettaglio più particolare era che prima di parlare tendeva a tirare fuori a rimettere dentro la lingua  per leccarsi velocemente il labbro superiore, proprio come un gatto. Non le domandai perché lo facesse, non volevo metterla a disagio in nessun modo.
“Mio padre non è esattamente come mia madre, è più buono di lei anche se non perfetto. Potrei definirlo una specie di … artista fallito. Ora lavora come bidello in una scuola ma in passato, prima che io nascessi, era un poeta le cui poesie erano abbastanza famose da fargli guadagnare una fortuna che sfortunatamente finì nel tritarifiuti, o almeno in parte.”
“Cosa gli è successo?”
“Non … non lo so con certezza. So soltanto che un giorno le sue poesie hanno smesso di vendere e lui ha iniziato a sperperare il suo patrimonio. Mi dispiace … non conosco i dettagli.”
“Ma in che senso lui è più buono di tua madre?” domandai curiosamente.
“Be’ tanto per cominciare non è pignolo come lei, è più permissivo, meno petulante di mia madre, più gentile di lei però … tende ad ubriacarsi e ci sono state delle notti nelle quali non è tornato a casa. Io lo so il motivo. Lo intuisco. Non sono scema.” Il suo sguardo si era fatto più cupo.
“Di cosa parli?”
“Lui ha delle amanti” disse sospirando.
“Ne sei sicura?”
“Abbastanza. Mio padre è un bell’uomo, forse un po’ sciupato, ma comunque abbastanza affascinante da attrarre le giovani ragazze in cerca di avventure di una notte. So che può sembrare assurdo ma qualche volta lo vedevo parlare con delle sconosciute, queste erano palesemente un po’ troppo ‘appiccicose’, non se capisci cosa intendo, ed erano più giovani di mia madre … almeno di dieci anni.”
“Tu come ti senti?”
“Così.” Alzò le braccia e le fece cascare sui fianchi. “Non so se essere felice o se avere paura di essere abbandonata. Una parte di me lo capisce, ma l’altra crede ancora in quella famiglia felice ritratta nelle fotografie.”
La prima cosa che pensai fu ‘povera Marie Ossler’ e la seconda cosa che pensai fu invece ‘sono stato un idiota a voler parlare di suo padre’. Non volevo sciupare l’umore della ragazza, non erano quelle le mie intenzioni all’inizio, e invece era quello che avevo ottenuto (soltanto geni come me possono rovinare una gradevole conversazione). Nel tentativo di rimediare ai miei errori le domandai:
“Cosa ti piace?”
“Eh? In che senso?”
“Non lo so … quale libro ti piace?”
“Non sono una grande lettrice, ho letto qualcosa della Christie e di Stout, ma niente di particolarmente profondo o impegnativo.”
“Quindi ti piacciono i gialli?”
“Sì, ma non sono un’appassionata del genere, li trovo semplicemente più interessanti di altri. Tu invece?”
“Il mio autore preferito è Edgar Allan Poe. Lo adoro.”
“Lo conosco.”
“Sì?”
“Mia sorella, lei è la lettrice di casa per la cronaca, adora i racconti del mistero e anche dell’orrore. È un po’ strana però …”
“Perché?”
“Ama leggerli nella vasca da bagno.”
“Oh.”
Accidenti a me non riuscii ad impedire al mio cervello di vagare nella fantasia e di costruire l’immagine di una donna svedese, immersa nell’acqua e nelle bolle di sapone che legge un racconto di Edgar Allan Poe sorseggiando dello champagne.
“Ci stai pensando, vero?” domandò lei con un ghigno malizioso.
“Chi? Io? No, no …”
“Invece sì e si capisce. Hai le guance un po’ più rosse di prima.”
“Tecnicamente è colpa tua, se tu non avessi parlato di tua sorella nuda che legge un libro io non ci avrei pensato.” Smisi di parlare il tempo necessario per assicurarmi che non fosse ancora tornato il Direttore, non volevo interrompere quella piacevole conversazione con Marie. Ripresi a parlare: “E poi non è strano che una persona legga nella vasca da bagno. Ognuno legge dove vuole.”
“E se il libro cadesse nell’acqua?”
“Se tua sorella non ha le mani di burro è tutto a posto.”
“E se gli schizzi d’acqua bagnassero le pagine?”
“Quando si legge bisognerebbe stare fermi.”
“Ma nessuno sta fermo in una vasca da bagno.”
“Ma si può maneggiare il libro con attenzione.”
“Ma così non è divertente fare il bagno. Io, per esempio, amo giocare con l’acqua e- ” Si mise a posto i capelli con un modo di fare impacciato. “Dimentica. Dimentica che ti abbia detto come faccio il bagno” disse arrossendo come un peperone.
“Sarà difficile” le dissi io sorridendo.
Lei si avvicinò a me e diede un pizzicotto sul braccio.
“Ahia.”
“Così impari a fantasticare su di me.”
“Non ho detto che l’ho fatto.”
“Ma non hai neanche detto che non l’avresti fatto.”
Touché.
“Allora lo parli il tedesco!”
“Ma no, è francese!”
“Be’ almeno tu puoi parlare con qualcun altro qui …”
“E che gli dico?” Finsi un accento francese. “ ‘Touché, io sono Giorgiò. Touché a te e touché anche alla tua famiglià.’”
Entrambi ci mettemmo a ridere. Ero felice di essere riuscito a farle dimenticare quella brutta conversazione riguardo al padre; il sorriso di Marie Ossler era splendente come una stella, quando rideva arrossiva e con la mano si era aggrappata alla manica della mia felpa.
Non essendoci sedie io e Marie ci accomodammo sul tavolo, lei appoggiò la testa sulla mia spalla e mi prese una mano; la cosa non mi mise a disagio ma fece impazzire il mio cuore, improvvisamente il mio corpo venne percorso da un brivido gelido che si riscaldò in un attimo. Il modo migliore per descrivere quella sensazione è il fuoco del camino, sì, mi sentivo come quando mi riscaldavo davanti al fuoco del camino: ero accaldato ma non sudavo, ero illuminato da una luce e mi sentivo abbracciato e protetto.
La mano di Marie era inumidita e potevo sentire perfettamente il suo respiro agitato e quasi potevo immaginare il sangue nelle sue vene che scorreva con estrema velocità, infuocando un cuore che palpitava allo stesso ritmo del mio. Non stava male, nessuno l’aveva costretta a fare quello che stava facendo eppure la sua reazione tanto era preoccupante quanto rassicurante. Era la prima volta anche per lei. Non voleva manipolarmi, non voleva sedurmi, voleva mostrare il suo affetto.
“Tu credi in Dio?” chiese lei.
“Non lo so, perché?”
“Perché questo strano posto è così magico, ed è impossibile nel mondo reale, giusto? Come potresti spiegarlo scientificamente? Deve essere qualcosa di divino.”
“O di demoniaco.”
“Nel nostro incontro non c’è nulla di demoniaco, io credo che sia stata la Provvidenza. Pensaci, non possiamo capire nessuno in questa stanza, solo io e te possiamo capirci. Pur essendo di due nazioni diverse, pur parlando due lingue diverse, io capisco solo te e tu capisci solo me. Qui c’è la mano di Dio.”
“Perché sono qui?”
Quella domanda uscì dalla mia bocca da sola. Non l'avevo comandata io, non l'avevo neanche pensata.
“Come?” domandò lei.
“Non ricordo perché sono qui. Non ricordo come sono arrivato qui. Questo è strano.”
“Io non ci penso.”
“Mm …”
Mi guardai attorno e la mia attenzione cadde nuovamente sugli abbigliamenti degli altri invitati: erano persone dall’aspetto ricco, erano persone fisicamente belle, addobbate con gioielli di ogni tipo e soprattutto erano l’opposto di noi due. Perché eravamo lì? Perché IO ero lì? Non mi sarei mai azzardato ad entrare in una festa piena di ricconi e se davvero mi fossi presentato di mia volontà, perché mai mi avrebbero accolto? Ero vestito come uno straccione. Ero un poveraccio. Quello non era il mio posto. Ne ero sempre più sicuro. Poi il mio pensiero errante si fermò. Cosa aveva detto Marie? ‘Io capisco solo te e tu capisci solo me’. No. Era sbagliato. Era completamente sbagliato. C’era qualcun altro nell’equazione.
“Il Direttore” mormorai io.
“Il … Direttore?”
“Tu lo capivi?”
“Sì.”
“Anche io. Anche io capivo lui. In ogni coppia lui è il terzo elemento, noi non capiamo le altre coppie ma tutte le coppie capiscono lui. Perché? Chi è il Direttore?”
Lei staccò la testa dalla mia spalla e mi guardò con due occhi preoccupati.
“Cosa stai dicendo? Mi fai paura.”
“Forse c’è davvero qualcosa di magico in questo posto ma è anche qualcosa di terribile, non so perché ma ne sono sicuro. C’è qualcosa che mi sta dando i brividi. Lo sento correre lungo la mia spina dorsale, è nelle mie ossa, sotto la mia pelle … è una sensazione stranissima. Dove siamo davvero?”
 
In quel momento scese il Direttore che sbattendo le mani attirò l’attenzione di tutti i presenti e con una voce entusiasta affermò: 
“Signore e signori, è il momento dello spettacolo! Prego, seguitemi.”
Il Direttore salì le scale e noi con lui. Intorno a me sentivo solo bisbigli e risatine, ma non c’era niente di particolarmente strano, niente di particolarmente terrificante. Il Direttore aprì una porta, si voltò e con un sorriso smagliante ci disse:
“Lo spettacolo.”
Entrai per primo e la prima cosa che notai fu la mancanza di sedie. Marie Ossler era al mio fianco, mi toccò la spalla due volte e con il dito indicò il muro distante circa venti metri da noi due sul quale erano dipinte una foresta, delle persone senza faccia che ballavano e una strana creatura tentacolare, nera, con tanti occhi e un sorriso inquietante.
Quello sciame di persone assunse la forma di un semicerchio; per circa cinque minuti non accadde niente ma poi le luci si spensero improvvisamente e dal buio emerse un raggio bianco che illuminava una gabbia d’acciaio chiusa con un lucchetto; all’interno della piccola prigione c’era una persona accucciata, vestita con un nero ricoperto di brillantini rossi, bianchi e blu; aveva un buffo cappello ed una maschera che ricordava quelle usate nei teatri della Grecia Antica, con una sola differenza: non c’era un volto.
Il Direttore aprì la gabbia da sopra. Quella specie di giullare si alzò aprendo le braccia come un bambino appena uscito dal grembo della madre e la prima cosa che disse fu:
“Son nato dalla morte di ieri.”
Il pubblico si mise a ridere. Non capii la battuta.
“Ieri sussurra a oggi e ci dice che domani non sarà che cenere se la terra non vien concimata con la giusta cura. Chi troppo in alto vola si scorda di chi succhia la linfa della terra, la creatura vermiforme che l’aquila invidia in cuor suo.”
Il pubblico rise nuovamente. Forse era una barzelletta che non avevo compreso, continuai ad ascoltare attentamente.
“Alza l’orecchio tu che sai ascoltare perché la voce che senti è un sussurro che viene dalle ceneri, non dal fuoco, ma da ciò che non brucia più. La fiamma che si consuma, già, essa racconta con urla talmente silenziose da poter essere udite solo da chi tende l’orecchio, non verso il cielo; il tetto è la terra.” Saltò fuori dalla gabbia con un balzo e sbattendo i piedi sul pavimento con forza e indicando verso il basso, esclamò: “Questa terra!”
Il pubblico stava ridendo. Mi girai e mi accorsi che Marie Ossler era attonita come me, entrambi non sapevamo come spiegarci la reazione di quel pubblico. Perché le persone ridevano quando quella specie di arlecchino parlava? Cosa c’era di divertente in quello che diceva?
“Questa terra!” Egli indicò nuovamente il terreno e sulla sua maschera comparve una faccia triste.
Il pubblico applaudì.
“Li sentite? Sussurrano, bisbigliano e URLANO! I vermi succhiano le intricate fibre delle vostre menzogne e giungono a Verità che non giace nel cielo ma è stata, bensì, sepolta. Chi ha ucciso Verità? Chi è colpevole di tale crimine?” Sulla maschera comparve una faccia furiosa. “Chi ha assassinato Verità? Io? No, giammai! Non avrei mai potuto, sono un povero pazzo ma assassino senza cuore non sarò mai! Prepara la terra, fa risorgere Verità; prepara la terra, fa risorgere Verità; prepara la terra, fa risorgere Verità.” Stava fingendo di mettere dei semi nel terreno. “Ma chi ha ucciso?” Sulla maschera comparve una faccia triste. “Voi.”
Alle sue spalle, sul muro, apparvero le immagini di guerre, di persone che morivano di fame, di genocidi, di orrendi stupri e di disumane torture.
“Voi” ripeté.
Sul muro apparvero volti sorridenti, famiglie in vacanza, bambini che giocavano, uomini in alti palazzi, feste e proteste.
“Voi” ripeté e poi indicò la gabbia.
Il pubblico continuava a ridere ma io e Marie eravamo consci che non si trattava di un spettacolo comico.
“Voi appartenete a quella gabbia, io no, voi sì, io no, voi sì. Io no. Voi sì. Davvero è gioia se viene costruita sulle spalle di chi mangia il fango? Alzate lo sguardo e osservate. L’aquila non vola davvero, crede di volare, ma è appesa ad un filo su un cielo che si muove. Ma come può volare? Cosa da energia alla macchina?” La maschera ottenne l’espressione di un volto piangente con lacrime rosse. “Sangue. Sangue di Verità. Religione? No. Scienza? No. Il suo nome è Umanità. Io sono te, tu sei me, il tuo sangue, la tua carne, la tua pelle, sono il mio sangue, la mia carne e la mia pelle. Io sono te, tu sei me. Siamo Umanità. Uno in tanti, tanti in uno. Questo è il vero nome di Verità.”
Il pubblico si mise a ridere e ad applaudire.
“Se io taglio me, tu soffri. È simpatia. Umana empatia. La vera sintonia. Ma seppellire Verità-Umanità è tapparsi le orecchie, divorare il suono e rimpiazzare l’esistente con l’inesistente. Ora tendi l’orecchio verso di me. Tu mi senti, vero? Tu mi capisci, vero? Tu sei l’unico che capisce me, vero?” Sulla maschera comparve un sorriso. “Balla e gioisci, fermati e disperati, perché casa mia è casa tua.” Rise, pianse, rise di nuovo e di nuovo pianse. “Piegati, umiliati, che la tua fronte tocchi il grembo della terra, gira la testa, tutto gira, e strappati la faccia. Tu non sei più te stesso ora sei solo te. L’ombra, l’impronta su una distesa di sabbia, il pezzo mancante in questo castello di specchi. Spaccati la testa finché puoi, mantieni tua la testa o essa subirà l’infausto destino e sarà chiamata circo.”
Quella specie di giullare fece un inchino e il pubblicò applaudì un'ultima volta prima di abbandonare la stanza. Solo io e Marie rimanemmo, ancora scioccati da quello spettacolo surreale.
Entrò il Direttore.
“Dio non esiste.” Le sue parole vennero seguite da un applauso da parte di quell’arlecchino.
“Che cos’è questo posto davvero?” domandai io, ancora scosso e confuso.
“Il Purgatorio, probabilmente, ma sicuramente una tua qualsiasi interpretazione condotta dalla fantasia andrà benissimo. Non sono le definizioni ad avere rilevanza ma è ciò che siete voi. Un caso, una particolare anomalia. Qualcosa che è necessario correggere. Voi avete l’Udito. Potete sentire.”
“Cosa significa?” domandò Marie, spaventata.
“La mia voce è Autorità e tutti possono e devono udirla. Ma gli esseri umani, fra di loro, non si capiscono e mai si capiranno. Le persone non sentono niente, rispondono sempre a ciò che credono di sentire. Sostituiscono la realtà con la bella fantasia. Tuttavia c’è chi, come voi due, possiede l’Udito e può sentire la sua voce.” Indicò quel giullare. “La sua voce è Verità o, come la chiama lui, Umanità. Nessuno può udirlo eccetto voi due, per questa ragione la correzione è necessaria. Bisogna esportare il tumore, risolvere il problema altrimenti scoppierà una rivoluzione.”
Marie mi prese la mano e mi condusse di corsa verso l’uscita ma la porta era sigillata.
“Non si scappa dalla cura.”
“Ma tu chi sei?”
Egli non rispose alla mia domanda, finse un sorriso e schioccò le dita, quindi scese il buio.
 
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in una cella assieme a Marie Ossler, le sbarre erano di ferro e l’intera struttura era di cemento. Nella stanza c’erano un grande letto con un materasso colmo di lacerazioni, un gabinetto, un lavandino con uno specchio rotto, un tavolo ed una sedia. Oltre le sbarre c’era solo il silenzioso nero. Alzai lo sguardo e notai che sul soffitto della cella erano stati incisi due immensi occhi spalancati ed una scritta ‘Nosocomio dell’Alba’.
Non so quanto tempo restammo in quella prigione … posso solo dire: abbastanza da farci l’abitudine. La mia relazione con Marie Ossler proseguì all’interno di quel piccolo mondo di cemento. Venivamo nutriti solo una volta al giorno con una bottiglietta d’acqua, pane e una mela; il cibo veniva lasciato davanti alla gabbia e quando cercavamo di scoprire chi ce lo stesse portando non arrivava; così ci rassegnammo.
La convivenza con Marie fu inizialmente complicata per me, ma alla fine noi due ci avvicinammo e consumammo il nostro primo rapporto carnale. Al quarto lei rimase incinta; disperata, perché non voleva avere un figlio in quella gabbia, decise di togliersi la vita tagliandosi la gola con un frammento di specchio. Piansi come mai avevo pianto in vita mia. Il giorno seguente passò il Direttore, comparso dal buio, lasciò cadere oltre le sbarre dei fogli di carta insieme ad una penna.
“Cosa vuoi da me? Hai già avuto abbastanza. Mi hai già tolto ogni libertà, ogni briciolo di dignità, mi hai persino strappato l’amore della mia vita. Che cosa vuoi da me? Che cos’altro vuoi da me?”
“Niente. Non ho mai voluto niente da te.”
“Allora cos’è quella roba?”
“Sei stanco. Debole. Incapace di reagire. Sei il più fragile fra gli esseri umani, ma forse puoi dare un contributo a questo mondo … puoi scrivere le tue memorie, puoi scrivere tutto quello che vuoi. Saprò io cosa farne di quei fogli.”
“Ma perché adesso?”
“Perché ora sei fertile. Condannami se vuoi, ma è giusto così. Ciò che tu hai subito è stato giusto. Questa è la mia Legge.”
Scomparve. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.
 
Ho scritto questa storia per i posteri, al fianco del corpo della donna che amavo. Forse un giorno qualcuno di voi scoprirà che cosa è successo e chi è il Direttore. Forse qualcuno di voi svelerà il mistero di questo mondo così depravato.
Ciao, Marie Ossler, mia amata, oggi ti raggiungerò.
 
Nota dell'autore
Questo racconto è ispirato ad un sogno che ho fatto, ho cercato di trascrivere il sogno nella maniera più accurata possibile e per questo potrebbero esserci delle cose strane e quasi assurde. Ma spero che vi sia piaciuto.😅